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Infermiere italiano in Guatemala, tra violenze inaudite e silenzi del mondo mediatico.

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Carissimo Direttore di AssoCareNews.it,

il 10 settembre 2019 sono atterrato a Milano Malpensa con un volo proveniente da Città del Guatemala dove ho trascorso pochi giorni (dieci) ricchi di emozioni che voglio condividere più che altro per riflettere insieme sui rischi a cui, se non cambiamo rotta, rischiamo di andare incontro.

In questo viaggio, uno dei tanti che a mie spese faccio come volontario di Ains onlus, un’organizzazione impegnata da più di 20 anni in uno dei paesi più poveri del Centro America, ho visto un paese pericoloso dove è aumentata la violenza tra le persone e dove sembra che ci si ammazzi per il gusto di farlo.

Tutte le mattine sul telefonino mi collegavo a la Prensa Libre, il quotidiano più letto nel paese, e, sempre, le notizie erano racconti di violenza.

Su tutte, tre mi hanno particolarmente colpito: l’uccisione in pieno giorno di un autista di un autobus cittadino che in una zona della capitale è stato ammazzato e scaraventato per strada mentre era alla guida.

Una mamma che fotografava la figlia di 5 anni vendendo le foto via internet ad una persona negli Stati Uniti facendosi pagare 50 dollari.

L’imboscata nei confronti di 4 militari in una zona del Paese ai confini con il Belize e l’Honduras, zona ricca di piantagioni di Palma Africaca da cui si ricava l’olio usato nell’industria alimentare. Imboscata che ha provocato 3 morti e un ferito che si è salvato e ha potuto raccontare, causando una reazione immediata del governo del Guatemala con un coprifuoco in alcune regioni del paese compresa quella de El Progresso dove c’è il nostro progetto, il Comedor infantil, la struttura che sosteniamo economicamente da più di 7 anni.

Coprifuoco che significa non poter fare nulla per 30 giorni una volta calato il sole, nemmeno ritrovarsi per strada in 3-4 persone per bersi una birra o fare quattro chiacchiere. Non è una bella sensazione quando la si vive perché tutto diventa precario e rischi veramente di uscire alla mattina per andare al lavoro e non sapere se ritornerai a casa alla sera.

Ma non è nemmeno bello sapere che da un momento all’altro i militari e la polizia possono entrare in casa tua senza autorizzazione solo perché hanno un dubbio o decidono che tu, proprio tu, devi essere controllato. Non commento, anche se una certa idea me la sono fatta, per rispetto del paese che ci ospita in solidarietà da 20 anni, perchè non conosco bene le dinamiche politiche e sociali e soprattutto perché non sarebbe corretto giudicare ciò che vedo andandoci solo un paio di volte all’anno per poche settimane.

Certo è che non è il massimo e più mi informo, più vedo cose che non capisco e mi spaventano, vedendo tanti collegamenti con quello che succede da noi in Italia. Un uomo che sferra un calcio ad un bambino straniero e l’accoltellamento in strada per una banale discussione al semaforo tra due automobilisti non sono dei bei segnali.

Il Guatemala dove facciamo cooperazione è un paese sempre più complicato e ogni volta che ci vado mi sembra sempre peggio anche se ci sono realtà, che ho incontrato, che vogliono reagire, a fatica, riuscendoci. E’ la così detta società civile che esiste ed è fatta da tanti guatemaltechi che si informano, sognano, partecipano e si danno da fare. Sono però la maggioranza che non conta e non ha l’opportunità di fare quel passo in più, in avanti, per cambiare perché chi ha il potere non ce l’ha a caso ed è bravo, furbo e intelligente a mantenerlo.

Cosa mi porto a casa da un viaggio come questo? La consapevolezza che la conoscenza si acquisisce solo viaggiando. Che ascoltare ed osservare è fondamentale per capire che nessuno è superiore all’altro e che ascoltando e osservando si comprendono molti perché.

Che è fondamentale fare lo sforzo per educarci alla solidarietà e alla tolleranza perché tutti abbiamo bisogno di tutti.

Che abbiamo troppo: mangiamo troppo, beviamo troppo, accumuliamo troppo volendo diventare i più ricchi del cimitero e lo siamo a scapito di tanti che non hanno niente ma sono sfruttati per farci avere sempre di più.

Che basterebbe poco per stare un po’ meglio tutti come ad esempio permettere con il sostegno a distanza di mandare a scuola tutti quei bambini che non se lo possono permettere in tanti paesi poveri. Che quello che conta veramente sono i bisogni delle persone e vale la pena impegnarsi per soddisfarli. Che non c’è nessuno padrone a casa propria. No, non c’è!

Come non c’è prima l’italiano o prima il guatemalteco o prima il francese. Assolutamente no e lo si scopre se si ha voglia di conoscere girando il mondo per capire. Se si vuole invece pensare che casa propria sia il mondo, beh allora è un’altra storia e buona fortuna a chi la pensa in questo modo.

Noi no!!!!

Ruggero Rizzini, Infermiere e Volontario Ains onlus

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