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2° Rapporto sul Sistema sanitario italiano voluto da EMPAM ed EURISPES.

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Ecco il 2° Rapporto sul Sistema sanitario italiano voluto da EMPAM ed EURISPES. Cosa è cambiato rispetto agli anni scorsi?

CAPITOLO 1 | PRE-COVID, RISPOSTA ALLA PANDEMIA E FUTURO DEL SSN

I trend del finanziamento del Sistema Sanitario Nazionale in epoca pre-Covid

Per almeno 15 anni il Fondo Sanitario Nazionale, ovvero le risorse dedicate al SSN nelle Leggi di stabilità varate dai diversi Governi, ha subìto decurtazioni nello spirito delle spending review avanzate per assestare i conti pubblici. La Sanità in particolare ha risentito dei tagli in tutte le sanità regionali e, in misura maggiore, per quelle con i bilanci dissestati che per lunghi anni sono state sottoposte a pesanti piani di rientro, o ancora lo sono. Nel periodo 2010-2019, l’ammontare annuo del Fondo Sanitario Nazionale effettivamente finanziato ha visto una leggera crescita (da 105,6 a 113,8 miliardi di euro), ma gli 8,2 miliardi in più segnalano un aumento medio dello 0,9% annuo che è al di sotto del tasso medio di inflazione riscontrato nello stesso periodo, e che è stato pari all’1,15%.

Secondo la Fondazione Gimbe, sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro alla Sanità pubblica, di cui circa 25 miliardi nel periodo 2010-2015, in conseguenza di “tagli” previsti da varie manovre finanziarie e oltre 12 miliardi nel periodo 2015-2019, in conseguenza del “definanziamento” che, per obiettivi di finanza pubblica, ha assegnato al SSN meno risorse rispetto ai livelli programmati.

Una piccola ma significativa inversione di tendenza si evidenziava, poi, con la Legge di stabilità 2020 che prevedeva un aumento del Fondo Sanitario Nazionale pari a 2 miliardi di euro e, quindi, ad un +3,4%, ben superiore al tasso di inflazione. In realtà, analizzando la dinamica dei finanziamenti fino al 2022, nel 2020, “in corso d’opera”, il Fondo sarebbe stato aumentato molto di più (a 119,7 miliardi) grazie ad una serie di provvedimenti straordinari assunti per affrontare la pandemia.

La sottrazione di risorse ha prodotto un depotenziamento progressivo delle capacità prestazionali e il declassamento del nostro Paese nelle classifiche mondiali del rapporto tra investimento in sanità pubblica e Pil.

Nel 2019, anno spartiacque perché ultimo interessato dalle politiche di definanziamento e non ancora toccato dalla pandemia, la quota del Pil riservata alla Sanità era scesa al 6,2%, alla quale i cittadini aggiungevano un 2,2% di spesa diretta, definita out-of-pocket. La media nell’Europa a 27 era rispettivamente il 6,4% e 2,2%, ma in Germania 9,9% e 1,7%, in Francia 9,4% e 1,8%, in Svezia 9,3% e 1,6%. Dunque, l’investimento pubblico in Sanità in Germania e in Francia è di più di un terzo superiore a quello italiano.

Osservando i trend delle variazioni medie (crescita e diminuzione) della spesa pro capite per la Sanità in tutti i paesi europei, accorpate per gli anni 2008-2013 e 2013-2019, si confermano sia la scarsità del finanziamento pubblico riservato in Italia alla Sanità, sia lo spazio maggiore occupato dalla quota sostenuta direttamente dal cittadino (che si attesta intorno ai 40 miliardi di euro di cui solo un 10% intermediato dal sistema assicurativo), sia il consolidato trend negativo degli indicatori.

L’invecchiamento del capitale umano e il precariato: un problema che sta per esplodere

Medici, infermieri e altre figure professionali di supporto al Ssn, in questi anni hanno subìto, proprio a causa dei meccanismi di definanziamento, una sensibile riduzione. Il mancato turn-over e il reiterato blocco delle assunzioni hanno prodotto anche sacche di precariato inconciliabili con la continuità assistenziale. Ma prima di tutto ha generato il forte invecchiamento del capitale umano sfociato in un alto numero di pensionamenti. Questo fenomeno, che già ha eroso il numero dei professionisti, è destinato a esplodere nei prossimi anni e investe anche l’area della sanità privata.

La programmazione della formazione di nuovi medici e nuovi infermieri è ancora fortemente insufficiente. Si consideri che la formazione di un medico specializzato richiede tra i 10 e i 12 anni, e per gli infermieri 5 anni. Nel 2019 i medici in Italia erano presenti in quota pari a 4,05 su 1.000 abitanti; un dato questo di poco inferiore alla Spagna (4,4) e alla Germania (4,39), e superiore alla Francia (3,17).

I dati 2019 della quota di infermieri (circa 6,16 ogni 1.000 abitanti; con un 1,4 infermieri per ogni medico) collocano l’Italia agli ultimi posti della classifica dei paesi Ocse. Va comunque precisato che per quello che riguarda propriamente le strutture più complesse della sanità pubblica, principalmente gli ospedali, il rapporto infermieri/medici sale sopra il 2 a 1.

L’“anagrafe” della classe medica parla chiaro: molti professionisti mediamente attempati, spesso anziani, e pochissimi giovani. Più della metà dell’intera classe medica italiana (56%) in maggioranza i medici tra i 55 anni e gli over 75 tra un quinquennio non saranno più operativi. I medici “giovani”, sotto i 35 anni, sono in Italia solo l’8,8%, contro percentuali superiori al 30% in Gran Bretagna, Olanda e Irlanda, o comunque superiori al 20% in Germania, Spagna e in Ungheria. La Francia, che per gli under 35 mostra un dato meno lontano dal nostro, presenta comunque un 15,7% di under 35: quasi il doppio dell’Italia.

L’invecchiamento dei medici impatta in particolare sulla medicina di base. Senza turnover, in 10 anni si verificherà una grave carenza di infermieri

Se in una struttura ospedaliera operano, ad esempio, 10 medici specialisti, e uno di questi va in pensione senza essere sostituito, si assisterà ad una riduzione parziale dell’attività e/o ad un prolungamento dei tempi che il cittadino-paziente dovrà attendere per l’erogazione di una determinata prestazione sanitaria. Ma quando, invece, il rapporto è 1 a 1 ‒ come nel caso della relazione tra medico di medicina generale e assistito ‒, e questo medico va in pensione, essendo i suoi colleghi già saturati dal numero massimo di assistiti (1.500), quella che si profila (e in molti territori già si verifica) è la pratica impossibilità di erogare un servizio.

Nel triennio 2019-2021 si sono “persi” in Italia 2.178 medici di medicina generale e 386 pediatri di libera scelta (il corrispettivo per i minori del medico di base): in percentuale più del 5%. Dal momento che ogni medico di base assiste una media di cittadini superiore ai 1.000 e che i medici più anziani spesso sfiorano o addirittura sforano il massimale di 1.500 assistiti, ciò ha significato che circa 3.000.000 di cittadini sono rimasti senza medico di base (dati Agenas).

Anche per le professioni infermieristiche, solo apparentemente il tema dei pensionamenti si pone oggi in termini meno emergenziali, dato che l’età media degli attuali infermieri attivi è di circa di 47 anni. La Fnopi, la Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche, segnala infatti che ogni 6 mesi questa età media si alza di una annualità. In un decennio, dunque, a meno di un forte turn-over che “arruoli” giovani infermieri, la penuria muterebbe in una vera e propria carestia.

Per quanto riguarda invece gli operatori nella sanità pubblica il blocco del turnover nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni hanno comportato la diminuzione del personale a tempo indeterminato. Secondo Agenas, dunque, al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008). Tra il 2012 e il 2017, il personale (sanitario, tecnico, professionale e amministrativo) dipendente a tempo indeterminato in servizio presso le Asl, le Aziende Ospedaliere, quelle universitarie e gli IRCCS pubblici è passato da 653mila a 626mila unità, pari ad una flessione di poco meno di 27mila unità (4%). Nello stesso periodo il ricorso a personale con un profilo di impiego flessibile è cresciuto di 11.500 unità, riuscendo solo in parte a compensare questo calo.

Offerta sanitaria, il Paese è spaccato

I tassi medi annui di turn-over sono molto diversi tra le Regioni del Nord e quelle del Centro-Sud. Toscana, Emilia-Romagna e Veneto anche negli anni duri della spending-review sono state in grado di sostituire integralmente il personale andato in quiescenza e addirittura ad aumentarlo. La Lombardia ha sostanzialmente mantenuto gli organici. Il Piemonte li ha leggermente diminuiti, anche perché per alcuni anni è stato “sotto piano di rientro” per poi uscirne, come avvenuto anche per la Sardegna. Tutte le altre Regioni sono accomunate dal fatto di essere ancora sotto piano di rientro e di aver presentato un tasso medio di turn-over tra il 2012 e il 2017 inferiore al 70%. È intuitivo capire come possa un sistema complesso come quello sanitario sopportare per lunghi anni una mancata sostituzione pari al 30% o più del personale originariamente in organico andato in pensione.

Dal 2022 al 2027 il Sistema Sanitario Pubblico perderà ogni anno una media di 5.866 medici dipendenti, e una media di 2.373 medici di medicina generale (dati Agenas). Per l’intero quinquennio vanno calcolate le uscite di 29.331 medici dipendenti, e di 11.865 medici di base. Rispetto agli attuali organici, per entrambi i comparti si tratta di perdite di poco inferiori al 30%. Anche i 21.050 infermieri più anziani del servizio pubblico sono destinati a lasciare vuoto il loro posto di lavoro nel prossimo quinquennio “per raggiunti limiti di età”. Si consideri inoltre che in molti casi si tratta di un lavoro usurante e che non è da escludere che si producano molti prepensionamenti che aggreverebbero la perdita di quasi il 10% degli addetti, rispetto ai 264.000 infermieri presenti nella sanità pubblica nel 2020.

Ad appesantire la situazione, se per un verso, almeno fino al 2020, il mancato turn-over ha depauperato i bacini professionali di medici e infermieri pubblici, per l’altro la carente programmazione dei necessari itinerari di formazione di nuovi professionisti, partendo dalle Università, passando per le borse e i corsi di specializzazione, rende difficile immaginare che nel breve e nel medio periodo il Paese possa contare su di un numero di giovani professionisti della sanità in grado di sostituire quelli in uscita e, ancora di più, di garantire le coperture che la riforma del sistema richiede.

Anche sul piano delle retribuzioni medici e infermieri si collocano agli ultimi posti in Europa

I dati sulla remunerazione di medici specialisti e infermieri ospedalieri in rapporto al Pil pro capite indicano che il medico italiano ha un reddito pari a 2,4 volte quello medio del Paese, mentre in Gran Bretagna il rapporto sale a 3,6, in Germania a 3,4, in Spagna a 3,0, in Belgio a 2,8. Si può nel complesso affermare che il lavoro del medico ottiene in Italia un riconoscimento economico inferiore a ciò che avviene nei maggiori paesi dell’Europa occidentale. Per gli infermieri il discorso è diverso: in primo luogo, il loro reddito corrisponde esattamente a quello medio degli altri lavoratori; inoltre, non si distanzia molto dalla media degli altri paesi, se si escludono il Belgio e la Spagna (rispettivamente 1,7 e 1,5).

Difformità regionali e liste d’attesa. La mobilità sanitaria riguarda quasi 1,5 milioni di cittadini

Gli italiani spendono “di tasca propria” in salute per prestazioni e farmaci in tutto o in parte (pagamento di un ticket) non coperti dal SSN annualmente quasi 40 miliardi di euro, raggiungendo una quota del Pil superiore al 2%. A ciò si aggiunga l’intensificarsi della “mobilità sanitaria”, generato dalla necessità di rivolgersi a strutture pubbliche di altre Regioni per ottenere prestazioni del SSN di fatto non erogabili nel territorio di residenza a causa dei deficit strutturali della sanità regionale di appartenenza. Questa “mobilità sanitaria” nel triennio del Covid si è contratta, a causa delle restrizioni nella libera circolazione e dell’appesantimento della maggior parte delle strutture sanitarie pubbliche; ma, considerando i dati del 2018, emergono forti squilibri territoriali relativamente ai pazienti in “ingresso” e in “uscita” tra le diverse Sanità regionali.

È possibile anche analizzare i dati riferibili sia al peso economico che le singole Regioni sostengono quando un loro cittadino ottiene una prestazione sanitaria in un’altra Regione (che per questo viene rimborsata), sia a quanto “incassano” per prestazioni svolte a vantaggio di cittadini di diversa provenienza, sia ai numeri reali dei pazienti “esportati” ed “importati”. Le Regioni con un saldo attivo sono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana, e quelle che invece depauperano il loro budget sanitario sono quasi tutte le rimanenti Regioni centro-meridionali.

Inoltre, gli importi versati dalle Regioni che “cedono” pazienti a quelle in grado di erogare le prestazioni, determinano una ulteriore difficoltà in budget sanitari già compressi dai piani di rientro. All’opposto, le Regioni che erogano molte prestazioni a cittadini non residenti possono contare su di un over-budget che rende possibile investimenti in strutture e personale, di cui beneficiano in primo luogo i cittadini residenti. In termini di efficienza la “forbice” tra alcune Regioni del Nord e quelle del Centro-Sud, inevitabilmente si allarga. Ai due estremi, nel 2018 la Regione Lombardia ha riscontrato un saldo positivo di quasi 809 milioni di euro, mentre la Regione Calabria un deficit di quasi 320 milioni di euro e la Regione Campania di più di 302 milioni. Anche da ciò derivano impatti quali quello del mancato turnover del personale medico e infermieristico. Solo per fare un esempio, nel quinquennio 2012-2017 in Lombardia il turnover del personale medico e infermieristico ha raggiunto rispettivamente il 100% e il 102%, mentre in Campania si è fermato al 69% e al 57%.

Oltre all’appesantimento dei “conti economici” delle singole sanità regionali, la “mobilità sanitaria” fa emergere il fenomeno rappresentato da quasi 1,5 milioni di cittadini che nel 2018 per curarsi hanno dovuto rivolgersi al di fuori della regione di residenza.

Se l’accesso alle prestazioni sanitarie risulta altamente difforme, per quello che riguarda la tempistica delle erogazioni il Paese soffre invece di una patologia quasi omogeneamente diffusa: quella delle lunghissime liste d’attesa. La difficoltà di accedere a cure mediche gratuitamente e in tempi accettabili si somma a quella già segnalata in rapporto alla difficoltà di trovare o sostituire nel proprio territorio il medico di medicina generale. Le serie storiche delle indagini campionarie dell’Eurispes evidenziano un trend da cui emerge che un quarto delle famiglie italiane denuncia difficoltà economiche relativamente alle prestazioni sanitarie. Relativamente al 2022 questa difficoltà si conferma maggiore soprattutto per i cittadini delle regioni meridionali (28,5%) e delle Isole (30,5%). Inoltre un terzo dei cittadini (33,3%) afferma di aver dovuto rinunciare a prestazioni e/o interventi sanitari per indisponibilità delle strutture sanitarie. E questo andamento si conferma e aumenta anche nel 2023.

Il paradosso dell’ampliamento dei LEA

La realtà fin qui descritta confligge con quanto “sulla carta” il SSN dovrebbe assicurare attraverso il progressivo ampliamento dei LEA, ovvero dei Livelli Essenziali di Assistenza. Si tratta di un vero e proprio paradosso, secondo cui per un verso si indicano e si ampliamo obiettivi prestazionali “garantiti” uniformemente per tutto il territorio nazionale, mentre per l’altro i deficit e i tempi di attesa delle prestazioni si appesantiscono, in particolare in alcune aree del Paese.

I Livelli Essenziali di Assistenza sono organizzati su tre aree: prevenzione, assistenza distrettuale e assistenza ospedaliera, e normano decine di migliaia di prestazioni e interventi ritenuti, appunto, “essenziali” che il cittadino ha diritto vengano erogati da parte del Servizio Sanitario Nazionale. Con revisioni periodiche alcune prestazioni possono essere non più ritenute “essenziali”, e ad altre possono invece essere inserite ex- novo. Ciò vale in primo luogo per alcune terapie farmacologiche innovative. Introdotti con un decreto legislativo del 30 dicembre 1992, definiti con un Dpcm del novembre 2001, poi riformati nel 2008 a seguito della sigla del Patto della salute tra Governo centrale e Regioni, la storia trentennale ha visto nel 2017 il varo dei nuovi LEA, per la verifica dei quali è stata creata una apposita Commissione. Inoltre, esiste una logica premiale per quelle Regioni che risultano almeno in parte adempienti nell’erogazione di quanto da essi previsto. Tutto bene, dunque, se non fosse che questa complessa architettura è rimasta in buona parte solo sulla carta.

Basti pensare che i “nuovi LEA” del 2017 sono bloccati poiché manca il nuovo decreto sulle tariffe delle diverse prestazioni: decreto che non ha ottenuto il consenso delle Regioni che lamentano l’impossibilità di erogare prestazioni aggiornate in mancanza di un adeguamento della disponibilità economica. Ma c’è di più: l’asticella dell’adeguatezza dei diversi sistemi regionali, rispetto alla quale quelli virtuosi ottengono quote “premiali” supplementari dal Fondo Sanitario Nazionale, è stata collocata molto in basso. Per questo si assiste, per un verso, all’aumento della spesa out-of-pocket, per l’altro alla crescita della quota dei cittadini che rinunciano alle cure o che sono costretti a rivolgersi alla sanità privata.

CAPITOLO 2 | GLI INTERVENTI FINANZIARI IN RISPOSTA AL COVID E LA MISSIONE 6 DEL PNRR 2020-2022: gli interventi finanziari in risposta al Covid

Con l’esplosione della pandemia, sono stati assunti provvedimenti straordinari che hanno sforato quanto previsto dalla Legge di stabilità 2020, portando il Fondo da 115,8 a 119,7 miliardi di euro. Questo è avvenuto anche per le due successive Leggi di stabilità (2021 e 2022). I diversi decreti Covid che si sono susseguiti tra il 2020 e il 2022 hanno destinato al SSN aggiuntivi 11.414,3 milioni di euro. Le risorse appostate in molti casi però non sono state ancora erogate.

Il potenziamento delle risorse umane del SSN legate alle esigenze derivanti dall’emergenza Covid- 19 ha riguardato quasi 21.500 medici e 32.000 infermieri in più, cui si sono aggiunte altre 30.000 unità di nuovo personale di supporto. Nonostante ciò, sono due gli aspetti critici di questa fase: l’assorbimento di personale sanitario, in deroga ai normali criteri di selezione, ha interessato molti soggetti non ancora specializzati (già dal primo anno di specializzazione) e comunque il loro utilizzo inevitabilmente è avvenuto spesso senza una relazione diretta con la formazione dei singoli operatori. Questo, in futuro, potrebbe rappresentare un elemento di confusione e/o di minore adeguatezza professionale del personale; poco più del 6% dei medici e del 26% degli infermieri sono stati assorbiti a tempo indeterminato, e al momento non vi è certezza che, scaduti i contratti a termine, possano rimanere nell’organico del SSN.

La Missione 6 del PNNR

Nel PNRR varato nel luglio 2021, le Missioni 5 e 6 contenevano gli specifici interventi per il settore sanitario e i relativi appostamenti finanziari.

Nella “Missione 5 – Inclusione e Coesione” per ciò che riguarda la sanità veniva inserito un investimento straordinario per le infrastrutture sociali e per i servizi socio-sanitari di comunità e domiciliari per le persone con disabilità, coordinato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, attraverso lo stanziamento immediato di 500 milioni di euro per il rafforzamento dei servizi sociali territoriali e di prossimità in favore delle persone fragili e di anziani non autosufficienti (soprattutto con riferimento alla riconversione delle RSA).

La Missione 6, totalmente incentrata sui temi sanitari, veniva suddivisa in due componenti: la prima (C 1), (comprendente reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza territoriale e sanitaria), finalizzata a riformare gli standard strutturali, organizzativi e tecnologici per l’assistenza sanitaria territoriale, con la previsione di un investimento di 7 miliardi; la seconda (C 2), concernente l’assistenza ospedaliera e volta a rafforzare gli IRCCS (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) e a potenziare la dotazione di apparecchiature tecnologiche, l’innovazione, la ricerca e la digitalizzazione del SSN, con una previsione di investimento di 8,63 miliardi di euro. A tali risorse vanno poi aggiunti 1,71 miliardi per la crisi pandemica e 2,81 miliardi del fondo complementare per la sicurezza ecologica e sismica.

Con il decreto del 20 gennaio 2022 l’allora Ministro della Salute disponeva l’utilizzazione delle prime risorse derivanti dal PNRR e dal Piano Nazionale per gli Investimenti Complementari (PNC).

Queste risorse ammontano a 6.592.960.665 euro a valere sul PNRR, e 1.450.000.000 euro a valere sul PNC. Complessivamente, la disponibilità finanziaria risultava essere di 8.042.960.665,58 euro.

CAPITOLO 3 | “THE OTHER SIDE OF THE MOON”: IL TEMA DEL RECUPERO PRESTAZIONALE Due anni di inazione

A inizio 2021 l’Italia è alle prese con l’avvio della campagna di vaccinazioni e l’esplosione della terza ondata. Con il passare dei mesi, però, si intensificano gli allarmi lanciati da molte associazioni professionali delle diverse aree cliniche sugli “effetti collaterali” legati al Covid-19. Il confronto dei dati del 2020 con quelli del 2019 facevano emergere numeri che segnalavano una emergenza sanitaria la cui gravità era passata sotto silenzio.

F.O.C.E, la Federazione Oncologi, Cardiologi, Ematologi presieduta dal Professor Francesco Cognetti, si impegnava già nei primi mesi del 2021 a segnalare l’esigenza di vaccinare prioritariamente determinate categorie di pazienti fragili a prescindere dall’età anagrafica, e al contempo segnalava i rischi connessi al rinvio di screening, di visite specialistiche, di interventi e l’impossibilità di seguire con i follow- up i pazienti operati, vista la persistente inagibilità per Covid della maggior parte delle strutture pubbliche. Si segnalava inoltre l’inevitabile aumento di mortalità per patologie come quelle oncologiche e cardiovascolari.

Analoghe preoccupazioni avevano portato l’AIOM, l’Associazione Italiana di Oncologia Medica, a richiedere un “recovery plan” contro i danni collaterali prodotti dalla pandemia.

A settembre 2021 la SIC, Società italiana di Chirurgia, riscontrava 400.000 interventi di chirurgia generale e 1 milione e 300mila ricoveri annullati nel solo 2020, con un trend analogo nel 2021. Quanto agli interventi specialistici, la SIC ha calcolato circa un milione di operazioni congelate. Le liste di attesa rispetto al 2019 si erano allungate di ulteriori mesi: da 3 a 6. L’attività elettiva aveva subìto una contrazione di circa l’80%.

I provvedimenti del Governo

Le problematiche legate al recupero delle liste di attesa createsi nel periodo dell’emergenza Covid- 19 sono state affrontate dall’allora Governo con il decreto-legge n. 104 del 2020 che prevedeva specifici stanziamenti, pari a 112,406 milioni di euro, destinati ai ricoveri ospedalieri, ed a circa 365,812 milioni di euro per il recupero delle prestazioni ambulatoriali. Nel decreto “Sostegni-bis”, convertito dalla legge 23 luglio 2021, n.106, è stato affrontato nuovamente il tema delle liste di attesa, al fine di consentire un maggior recupero delle prestazioni di ricovero ospedaliero per acuti in regime di elezione e delle prestazioni di specialistica ambulatoriali non erogate dalle strutture pubbliche e private accreditate nel 2020. Per l’attuazione di tali finalità le Regioni e le Province autonome possono utilizzare le risorse non impiegate nell’anno 2020.

Nella Legge di bilancio 2022, al fine di garantire la piena attuazione del Piano Operativo per il recupero delle liste di attesa è autorizzata la spesa per complessivi 500 milioni, di cui un importo massimo di 150 milioni, eventualmente incrementabile sulla base di specifiche esigenze regionali, può essere utilizzato per coinvolgere le strutture private accreditate.

Nel complesso, sui piani di recupero, tra 2021 e inizio 2022, sono stati stanziati quasi 1 miliardo di euro. Al di là di nuovi fondi erogati che, anche nel caso della Legge di stabilità 2022, come quelli precedenti in buona parte non sarebbero stati immediatamente utilizzati, ancora oggi troppo poco è stato fatto per ripristinare un’accettabile agibilità di ospedali e poliambulatori.

Gli interventi sanitari non saranno mai più recuperati, così come i pazienti non sottoposti a screening e procedure di prevenzione andranno, nei fatti, incontro ad una malattia già avanzata e meno trattabile. L’occupazione delle terapie intensive e quella dei reparti di medicina (rispettivamente, circa 10.000 e quasi 40.000 letti occupati) sono drasticamente diminuite e, ad esempio, a maggio 2022 erano rispettivamente poco meno di 400 e a meno di 10.000. Nonostante questo, in molti ospedali la gestione degli spazi, del personale e delle sale operatorie è rimasta quella dei mesi più bui dell’impatto del Covid- 19.

Oltre gli allarmi: alcune proposte per il recupero prestazionale

Lo scorso anno l’Osservatorio Salute Previdenza e Legalità Eurispes-Enpam ha coordinato una serie di incontri con esponenti del mondo clinico, con l’obiettivo di contribuire ad identificare ed elaborare proposte per affrontare il tema del “recupero prestazionale” per le patologie non Covid. Il gruppo di lavoro ha al momento elaborato i seguenti punti.

–  Richiedere alle Aziende sanitarie di assicurare una maggiore reattività delle strutture del bed management nel liberare spazi, strumentazioni e sale operatorie. Si è verificato, sin dall’uscita dal primo lockdown, un ritardo rilevante nella ripresa delle attività ordinarie delle strutture ospedaliere pubbliche (soprattutto le medio-grandi). La maggiore sofferenza si è constatata sia nelle attività ambulatoriali sia in quelle di ricovero elettivo. Generalmente, le strutture di bed management non hanno né affrontato né risolto le criticità, se non che molto parzialmente e con ritardo. Ancora oggi con reparti Covid sostanzialmente sgombri, non si può parlare di ritorno alla normalità ante pandemia. Le Direzioni Aziendali dovrebbe essere più pronte nel ripristino dell’ordinario (disponibilità dei reparti, ripristino delle attività ambulatoriali e delle sale operatorie, più efficace mobilità del personale dedicato). Pur nel rispetto delle autonomie aziendali, specifiche linee guida del Ministero e una concreta azione di controllo degli Assessorati regionali potrebbero contribuire a superare resistenze e inadempienze.

–  Recuperare, quanto più possibile, per le attività ordinarie la disponibilità di infermieri e assistenti sanitari. Anche in questo caso si tratta di registrare al meglio i criteri di organizzazione.

–  Varare un piano straordinario impostato centralmente e gestito a livello regionale che veda il coinvolgimento strutturale della sanità convenzionata e accreditata in un’opera coordinata di recupero per lo screening e la diagnostica. Queste strutture, che nelle fasi più dure della pandemia hanno supplito alla compressione che il Covid-19 ha imposto a quelle pubbliche, hanno conseguentemente assorbito forti risorse economiche e, quindi, possono essere chiamate ad uno sforzo straordinario in termini di orari di apertura delle sedi e, più in generale, di offerta prestazionale.

–  Identificare a livello regionale strutture destinate principalmente a smaltire le diagnostiche e le visite specialistiche “saltate”, anche per superare la riluttanza dei cittadini a rivolgersi a strutture sanitarie che hanno operato per la pandemia ed ancora non in ordine. Per quanto riguarda soprattutto le attività ambulatoriali (visite specialistiche, diagnostica e screening), si suggerisce il coinvolgimento delle strutture convenzionate ed accreditate in stretta relazione con le strutture del territorio in una azione complessa ed articolata, che veda anche la mobilità straordinaria del personale sanitario. Il coordinamento dei medici di medicina generale risulta anche in questo àmbito essenziale, previo collegamento e coordinamento con le autorità regionali.

–  Mobilitazione straordinaria della medicina generale per la compilazione di liste ed elenchi di priorità diagnostiche relativamente ai rispettivi assistiti, in modo da poter meglio programmare i tempi e le gerarchie degli interventi.

–  Realizzare al più presto il progetto di dotazione tecnologica degli studi dei medici di medicina generale di cui alla Legge di stabilità del 2020, in modo da renderli più performanti e in grado di operare un’ulteriore opera di filtro.

–  Varo di una campagna di comunicazione ai cittadini da parte del Ministero (ripresa sui mezzi locali dalle Regioni) che segnali la necessità/opportunità di tornare a controllare il proprio stato di salute e/o a riprendere le cure abbandonate a causa del Covid.

–  In questo àmbito valutare l’opportunità di ampliare per un determinato periodo l’area dell’esenzione dai ticket, in modo da “invogliare” l’intera popolazione a controllare il proprio stato di salute. Sarebbe perciò necessario compilare un nuovo elenco di esenzioni relative ad aree patologiche a maggior rischio e, quindi, meritevoli dell’esenzione generalizzata. Questa attività “straordinaria” potrebbe confluire adeguatamente nel rilancio delle attività di prevenzione sanitaria. A tal fine, per un determinato periodo dovrebbe esser permesso ai medici di medicina generale di superare l’obbligo dell’invio del paziente allo specialista per la ricettazione di determinate diagnostiche.

CAPITOLO 4 | IL DM 77: “IL MIGLIORE DEI MONDI (SANITARI) POSSIBILI?”

Il Dm 77, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 22 giugno 2022, intende normare la rinnovata offerta di una medicina territoriale d’avanguardia. Il Dm 77, nella maggior parte dei casi, agisce in termini di rimodulazioni di istituti già esistenti. Ciò vale in particolare per il Distretto, l’unità di coordinamento territoriale che conferma il suo tradizionale ruolo di raccordo, e a cui afferiscono le diverse articolazioni. Il Distretto comprende circa 100.000 abitanti, con variabilità secondo criteri di densità di popolazione e caratteristiche orografiche del territorio.

La programmazione deve prevedere i seguenti standard:

–  1 Casa della Comunità hub ogni 40.000-50.000 abitanti;

–  Case della Comunità spoke e ambulatori di Medici di Medicina Generale (MMG) e Pediatri diLibera Scelta (PLS). Tutte le aggregazioni dei MMG e PLS (AFT e UCCP) sono ricomprese nelle Case della Comunità avendone in esse la sede fisica oppure a queste collegate funzionalmente;

–  1 Infermiere di Famiglia o Comunità ogni 3.000 abitanti;

–  1 Unità di Continuità Assistenziale (1 medico e 1 infermiere) ogni 100.000 abitanti;

–  1 Centrale Operativa Territoriale ogni 100.000 abitanti o comunque a valenza distrettuale, qualora il Distretto abbia un bacino di utenza maggiore;

–  1 Ospedale di Comunità dotato di 20 posti letto ogni 100.000 abitanti.

Casa della Comunità

La Casa della Comunità (CdC) è il luogo fisico e di facile individuazione ‒ al quale i cittadini possono accedere per bisogni di assistenza sanitaria, socio-sanitaria a valenza sanitaria ‒ e il modello organizzativo dell’assistenza di prossimità per la popolazione di riferimento.

Per ciò che concerne le Case della comunità spoke, che di fatto non si differenziano molto dai preesistenti ambulatori dei medici di medicina generale, il più evidente elemento critico è quello relativo alla presenza di medici e infermieri per 12 ore al giorno e per 6 giorni su 7. Per queste strutture, e ancora di più per quelle hub, non è indicato come e dove verrà reperito il personale necessario, tanto più viste la penuria di risorse professionali nell’area infermieristica e l’assenza di linee di riforma e di potenziamento dell’area della medicina generale. Se per gli infermieri si può ipotizzare in una certa quota un recupero dalle strutture ospedaliere, una volta che queste risultassero alleggerite dalla pressione a cui da anni sono sottoposte, per i medici di medicina generale esiste poi l’impossibilità di obbligarli alla presenza nelle case hub, dato che sono liberi professionisti in regime di convenzione, e che non esiste alcun realistico progetto di modifica degli assetti che li riguardano.

Inoltre, l’obiettivo dell’apertura in pochi anni di circa 1.350 Case della Comunità comporta uno sforzo logistico enorme che difficilmente la maggior parte delle Sanità regionali sarà in grado di sopportare. Nel corso del 2022 si è assistito a molte “inaugurazioni” di Case della Comunità, ma in realtà si è trattato di strutture preesistenti (poliambulatori, case della salute).

Infermieri di famiglia o comunità e Unità di continuità assistenziale

Per quanto riguarda gli infermieri di famiglia e le funzioni per essi indicate, il Dm 77 si limita a riprendere esperienze già diffuse in alcune regioni, facendole ascendere a “norma” valida su tutto il territorio.

L’attività dell’infermiere di famiglia è così descritta: «L’Infermiere di Famiglia o Comunità è la figura professionale di riferimento che assicura l’assistenza infermieristica ai diversi livelli di complessità in collaborazione con tutti i professionisti presenti nella comunità in cui opera, perseguendo l’integrazione interdisciplinare, sanitaria e sociale dei servizi e dei professionisti e ponendo al centro la persona. L’Infermiere di Famiglia o Comunità interagisce con tutti gli attori e le risorse presenti nella comunità formali e informali. L’Infermiere di Famiglia o Comunità non è solo l’erogatore di cure assistenziali, ma diventa la figura che garantisce la risposta assistenziale all’insorgenza di nuovi bisogni sanitari espressi e potenziali che insistono in modo latente nella comunità. È un professionista con un forte orientamento alla gestione proattiva della salute. È coinvolto in attività di promozione, prevenzione e gestione partecipativa dei processi di salute individuali, familiari e di comunità all’interno del sistema dell’assistenza sanitaria territoriale nei diversi setting assistenziali in cui essa si articola.

Standard: 1 Infermiere di Famiglia o Comunità ogni 3.000 abitanti. Tale standard è da intendersi come numero complessivo di Infermieri di Famiglia o Comunità impiegati nei diversi setting assistenziali in cui l’assistenza territoriale si articola».

Il fabbisogno di infermieri di famiglia, secondo lo standard fissato, sarebbe di circa 20.000 unità: un consistente gruppo di professionisti i cui compiti sarebbero essenziali e, allo stesso tempo, inevitabilmente esclusivi. Ma nel testo si fa riferimento a tutte le altre funzioni da svolgere sul territorio: case della salute hub e spoke, ospedali di comunità, distretti, e magari anche unità di continuità assistenziale e assistenza domiciliare: un carico che considerare eccessivo è un eufemismo.

Più limitato è il fabbisogno di personale per le Unità di Continuità Assistenziale, la cui funzione viene così descritta: «L’Unità di Continuità Assistenziale nel limite previsto ai sensi dell’articolo 1, comma 274, della legge 30 dicembre 2021 n.234 è un’équipe mobile distrettuale per la gestione e il supporto della presa in carico di individui, o di comunità, che versano in condizioni clinico-assistenziali di particolare complessità e che comportano una comprovata difficoltà operativa.

Standard: 1 Medico e 1 Infermiere ogni 100.000 abitanti».

Anche in questo caso il peso di una funzione così essenziale è caricato principalmente sulle spalle delle professioni infermieristiche, le stesse chiamate ad assolvere in quasi autonomia i compiti negli ospedali di comunità, la cui attività è così descritta: «L’Ospedale di Comunità (OdC) è una struttura sanitaria di ricovero che afferisce alla rete di offerta dell’Assistenza Territoriale e svolge una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero ospedaliero, con la finalità di evitare ricoveri ospedalieri impropri o di favorire dimissioni protette in luoghi più idonei al prevalere di fabbisogni socio-sanitari, di stabilizzazione clinica, di recupero funzionale e dell’autonomia e più prossimi al domicilio.

Standard: 1 Ospedale di Comunità dotato di 20 posti letto ogni 100.000 abitanti; 0,2 posti letto per 1.000 abitanti da attuarsi in modo progressivo secondo la programmazione regionale.

Standard di personale per 1 Ospedale di Comunità dotato di 20 posti letto: 7-9 infermieri (di cui 1 Coordinatore infermieristico), 4-6 Operatori Socio-sanitari, 1-2 unità di altro personale sanitario con funzioni riabilitative e un Medico per 4,5 ore al giorno 6 giorni su 7».

Ai nostri infermieri spetta anche un compito centrale nell’assistenza domiciliare (che punta a prendere in carico il 10% degli over sessantenni), nelle Unità e negli Hospice delle cure palliative e nei consultori. Per queste funzioni, però, il Dm 77 non indica il necessario fabbisogno di personale.

Le criticità del progetto di riforma

Se il Sistema Sanitario Nazionale non sarà messo in grado di programmare e poi assorbire le necessarie professionalità, le Case e gli Ospedali della comunità rimarranno vuote, mentre la crisi del decisivo comparto della medicina generale si avviterà ulteriormente, gli ospedali continueranno a degradarsi, l’universalità della sanità pubblica continuerà a deperire, si apriranno ulteriori autostrade per la sanità privata e curarsi diverrà una questione di censo.

Chi correttamente manifesta aperture e speranze rispetto al vento nuovo che sembra soffiare sulla sanità pubblica, allo stesso tempo non può non vedere che gli sforzi messi in atto come positiva reazione alla pandemia sono solo parziali e, in qualche misura, contraddittori. Ad esempio, mentre si ipotizzano servizi più avanzati e diretti al cittadino-paziente, in questi mesi negli ospedali di molte Regioni i pronto soccorso occupano medici esterni a gettone per assenza di quelli interni, fiaccati da turni massacranti e spesso in fuga dal pubblico, mentre in molte Regioni i concorsi per assegnare le borse dei nuovi medici di medicina generale non vengono banditi con la necessaria prontezza.

Anche dal punto di vista “culturale”, l’encomiabile attenzione che il Dm 77 dedica alla telemedicina e alla ottimizzazione delle reti di comunicazione in àmbito sanitario, si scontra con la realtà di molte Regioni per le quali il Fascicolo Sanitario Elettronico è ancora uno strumento sostanzialmente sconosciuto.

CAPITOLO 5 | LE “VOCI DAL CAMPO”: LA VISIONE DEGLI OPERATORI

Sono state realizzate quattro interviste con autorevoli esponenti del mondo medico sul futuro e sulle prospettive del Sistema sanitario.

La prima conversazione è con il Dottor Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE (Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze), che da più di 25 anni si occupa di analizzare la funzionalità e le problematiche del Servizio Sanitario Nazionale. Nel corso della pandemia GIMBE ha svolto l’importante funzione di elaborazione dei dati dei contagi, dell’occupazione dei reparti di medicina e di terapia intensiva, dell’avanzamento della campagna di vaccinazione. Recentemente (ottobre) la Fondazione GIMBE ha pubblicato il suo V° Rapporto sul Sistema Sanitario Nazionale.

La seconda conversazione è realizzata con il Dottor Silvestro Scotti, Segretario Nazionale della FIMMG, la Federazione nazionale dei Medici di Medicina Generale e dei Pediatri di Libera Scelta che associa il 63,17% dei medici di base (dati 2019).

La terza conversazione è con il Professor Filippo La Torre, già Presidente del CIC (Collegio Italiano Chirurghi), che riunisce quasi tutte le società Scientifiche di Area Chirurgica cui fanno riferimento oltre 45.000 medici.

La quarta conversazione è con la Presidente nazionale, Dottoressa Barbara Mangiacavalli, e il Consigliere, Dottor Nicola Draoli della FNOPI (Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche) cui fanno riferimento circa 465.000 infermieri impegnati nella sanità pubblica e privata.

Si rimanda al testo integrale del Rapporto per una più approfondita lettura.

CAPITOLO 6 | PRIMAVERA 2020: IL PRIMO IMPATTO DEL COVID-19 ITALIA E GERMANIA: SISTEMI A CONFRONTO

Il contributo che qui si presenta ha come obiettivo quello di “fotografare” una specifica fase della pandemia, quella tra febbraio e maggio 2020, durante la quale sono emerse evidenze che appaiono comunque utili alla messa in campo di quelle soluzioni strutturali e di ampio respiro che la Riforma del Sistema Sanitario italiano richiede.

È stato dunque effettuato un confronto tra il primo impatto del Covid-19 in Germania e in Italia.

Confronto Italia e Germania

Il confronto tra Italia e Germania è importante per la vicinanza territoriale e l’interdipendenza tra due paesi, ma soprattutto per il differente approccio adottato nel far fronte all’emergenza sanitaria. Già a marzo 2020, di particolare interesse sono le differenze di strategia tra i due paesi nel prediligere l’approccio ospedaliero piuttosto che quello domiciliare.

Dai dati emerge che il ricorso all’ospedalizzazione in Italia è stato ben più diffuso rispetto alla Germania. L’Italia ha favorito l’espandersi del sistema privato, sostenendo in questo modo un alto livello di qualità delle prestazioni, favorendo però al tempo stesso una crescente centralità della cura ospedaliera a discapito di un’assistenza più integrata a livello territoriale.

Il sistema sanitario tedesco: modello Bismark

La Germania è un paese che da sempre spende molto per la sanità, riuscendo a produrre una grande quantità di servizi con un basso livello di spesa diretta da parte dei pazienti, e dando l’impressione di essere tecnicamente efficiente.

La Germania presenta un’incidenza dell’11% della spesa sanitaria sul Pil.

In Germania nel 2020 la spesa sanitaria pro capite ammontava a circa 3.760 euro, di cui 557,71 “out of pocket”. Pur rimanendo inferiore rispetto a quella Usa (8.745 $), la spesa sanitaria pro capite in Germania è superiore alla media Ocse (3.484 $). In Italia nel 2020 ammontava a 2.522,52 euro, di cui 592,43 “out of pocket”: meno del 70% di quella tedesca.

La popolazione tedesca assomma a 81,8 milioni di cittadini, che per l’85% sono iscritti a una delle 132 assicurazioni sociali “obbligatorie” (Krankenkassen). Si tratta di assicurazioni “non profit”, “casse mutue” che presentano caratteristiche proprie di strutture sia private che pubbliche. Il finanziamento del sistema sanitario tedesco è principalmente basato sul gettito delle assicurazioni sociali obbligatorie (57%) e delle assicurazioni private (9%), integrato da altre fonti secondarie. Lo Stato centrale non è coinvolto nel sistema sanitario né come finanziatore, né come gestore (entrambi i ruoli sono affidati ai Lander), né come proprietario di aziende sanitarie, con alcune eccezioni quali gli ospedali militari. Lo Stato, comunque, governa complessivamente il sistema, definendo la programmazione generale e le regole entro cui gli attori possono muoversi. Le mutue e le associazioni dei medici operano all’interno di regole amministrative modificabili solo dallo Stato centrale, e lo stesso vale per le leggi che regolano le relazioni tra i diversi soggetti del sistema.

Un importante ruolo nella gestione e nel finanziamento del Sistema sanitario è comunque affidato al livello regionale, dove operano tre istituzioni: il Land (attraverso il proprio Ministero della Sanità), le mutue, le associazioni dei medici convenzionati e degli ospedali. Sono i singoli Länder che programmano e finanziano gli investimenti e le infrastrutture (ospedali, dipartimenti, dotazioni e attrezzature, convenzioni e formazione specialistica), accreditano i volumi di prestazioni, finanziano i sistemi di integrazione ospedale-territorio ed effettuano il controllo di legittimità. Per le funzioni ospedaliere, è previsto un contratto diretto con ogni ospedale, mentre le funzioni ambulatoriali sono negoziate attraverso un accordo globale con l’associazione regionale dei medici.

Assistenza ospedaliera

Gli ospedali nel 2012 risultavano essere 2.017, per un totale di 501.475 posti letto: 601 pubblici, 719 privati non-profit e 697 privati for-profit, con una percentuale di posti letto rispettivamente del 48%, 34% e 18%. Oltre agli ospedali per acuti esistevano1.212 strutture dedicate alla riabilitazione, con 168.968 posti letto. Tra queste ultime strutture solo il 19% erano pubbliche, il 26% private non-profit e il 55% private for-profit. Relativamente ai posti letto, il 18% si ritrovava nelle strutture pubbliche, il 16% nel privato no-profit e il 66% nel for-profit.

La Germania dispone ancora oggi della più costosa rete ospedaliera dell’Europa Occidentale, con 8,3 posti letto ospedalieri per 1.000 abitanti, rispetto alla media di 4,8 dell’Ocse, del 2,6 della Svezia e del 3,4 dell’Italia. Il tasso di ospedalizzazione è di 25 ricoveri per 1.000 abitanti rispetto alla media di 15,5 dell’Ocse, di 16,2 della Svezia e di 12,8 dell’Italia. La durata media della degenza è di 9,2 giorni, rispetto alla media di 7,4 dell’Ocse, di 6,0 della Svezia e di 7,7 dell’Italia.

I dati tedeschi, pur indicando una notevole capacità strutturale e di offerta di servizi, non sono necessariamente indicatori di qualità. Relativamente ai dati del 2017, infatti, le statistiche premiano l’Italia in quanto a indici di qualità ed efficacia delle cure. Il nostro Paese occupa il podio tra i paesi con la maggiore aspettativa di vita e minore prevalenza di morti evitabili.

Gli ospedali italiani sono da ritenere più efficienti di quelli tedeschi: hanno una maggiore “produttività” per letto (la velocità di rotazione è maggiore) e una degenza più bassa (7,8-7,9 giorni rispetto agli 8,9 della Germania); i tassi di occupazione dei letti per le degenze superiori ai 2 giorni sono più elevati: 78% per l’Italia, 77,6% per la Germania. Rispetto alla Germania (ma anche alla Francia), il costo per letto è più basso. L’Italia rappresenta, dunque, un buon esempio di efficienza e adeguatezza del sistema ospedaliero.

Nel decennio 2008-2017, anche come conseguenza della crisi del 2008 che ha portato ad una riduzione della spesa sanitaria, i letti in Italia si sono ridotti di 45mila unità: i ricoveri sono crollati di 3,4 milioni e le giornate di degenza di 16,6 milioni. Se si fosse mantenuto lo stesso numero di letti del 2007, il loro tasso di occupazione oggi sarebbe di circa il 57%. In altri termini, si sono chiusi o riconvertiti letti vuoti. Oggi si ritiene che non vi sia bisogno di aumentarli, salvo per le emergenze in terapia intensiva, dove peraltro prima dell’epidemia da Covid-19 risultavano occupati solo al 48,4%. Oggi si effettuano in day hospital o ambulatorialmente interventi che prima necessitavano il ricovero. Se l’Italia ha una dotazione di 3,14 letti per mille abitanti, in altri paesi più avanzati l’Ocse segnala che la disponibilità dei letti è ancora più bassa: Stati Uniti 2,8, Nuova Zelanda 2,7, Danimarca 2,6, Regno Unito e Canada 2,5, Svezia 2,2.

Assistenza territoriale

La riforma del 2004 in Germania ha introdotto diverse novità nell’ottica di potenziare i servizi territoriali: tra queste vi è quella di incentivare l’iscrizione degli assistiti ad un medico generalista che, oltre a svolgere il ruolo di gatekeeper, ha anche la responsabilità del coordinamento delle cure. Non vi è un obbligo, ma chi lo fa si vede ridotte le compartecipazioni alla spesa e diminuiti i tempi delle liste di attesa. Il numero dei pazienti assistiti dal medico di famiglia “gatekeeper” è in continua crescita.

Altra innovazione è stato il superamento del modello di cura basato sul singolo medico, con lo sviluppo di centri di cure interdisciplinari (MVZ), aumentati da 70 a 1.814 dal 2004 al 2012, e a ben 3.200 secondo i dati del 2018. Secondo l’Associazione dei Medici Mutualisti (Kassenärztliche Bundesvereinigung KBV) il numero dei medici Mutualisti e degli Psicoterapeuti è salito dell’8,4%, da 50.136 nel 2010 a 54.371 nel 2018, con una contemporanea richiesta di riduzione dell’orario lavorativo. La retribuzione media annuale di tali medici è di circa 55.000 € annui lordi.

Nel frattempo, dal 2009 al 2018 il numero di poliambulatori MVZ è salito da 1.454 a 3.173 (+118,2%) con una maggiore partecipazione degli ospedali come azionisti (da 554 a 1.387 pari a +150%). L’istituzione e lo sviluppo dei MVZ hanno comportato, tra l’altro, una maggiore integrazione della cura e una maggiore rigidità nella selezione delle attività da effettuare esclusivamente in ospedale. Quindi, si è avuto non solo un minore afflusso in ospedale di pazienti per attività ambulatoriali, ma anche una minore circolazione dei pazienti nelle stesse strutture. Ciò ha permesso una diminuzione della degenza media ospedaliera negli ultimi anni da 9,7 a 7,3 giorni. Questa evoluzione sta permettendo l’introduzione di percorsi assistenziali per alcune patologie croniche, finanziati attraverso un fondo nazionale e realizzati attraverso reti integrate ospedale-territorio. Questi percorsi nel 2006 coinvolgevano 2.7 milioni di pazienti, nel 2012 oltre 7 milioni.

Queste innovazioni avrebbero richiesto un forte aumento del numero dei medici di famiglia, ma così non è stato. Dei 121.000 medici territoriali convenzionati con le mutue, il 46% è rappresentato da medici di famiglia (generalisti senza specializzazione, generalisti con specializzazione in medicina di famiglia, specialisti in medicina interna, pediatri), e il 54% da medici specialisti, con una tendenza all’aumento degli specialisti rispetto ai medici di famiglia. Ciò spiega il carico di lavoro che si trovano a sopportare i medici di famiglia in Germania, che non ha pari in altri paesi europei: una media di 51 ore settimanali di lavoro, con 250 pazienti contattati in media settimanale.

Valutazioni sul modello tedesco

La Germania ha un budget annuale per la sanità di circa 375 miliardi di euro, come già detto pari all’11,3-11,5% del Pil e a 4.544 euro pro capite. La media europea corrisponde a circa il 9,8 % del Pil: quindi la Germania investe molto di più sia rispetto all’Italia sia rispetto alla media Europea.

In Germania il budget sanitario viene utilizzato per il 28% nelle cure ospedaliere, per il 27% per quelle ambulatoriali, territoriali e domiciliari, per 19% per i farmaci e presidi sanitari, per il 18% per le cure a lungo termine e per 3% per la prevenzione. Sostanzialmente, si investe per la medicina territoriale tanto quanto si investe in quella ospedaliera. Nonostante l’evidente importanza strutturale del sistema tedesco, emergono due principali problemi che hanno a che fare con la qualità e l’equità dell’offerta:

– la Germania spende molto per la sanità, produce un’enorme quantità di servizi, con un basso livello di spesa diretta da parte dei pazienti. Ciò dimostra che ci troviamo di fronte a un sistema con liste di attesa corte e una buona soddisfazione degli utenti. Ma se andiamo a misurare la qualità dei servizi, confrontandola con quella di altri sistemi, quello italiano in primis, la Germania si colloca sistematicamente nelle zone medie della classifica e, per alcune aree, più in basso;

– inoltre, la divisione tra assicurazioni sociali obbligatorie e assicurazioni private può generare gravi diseguaglianze nell’assistenza sanitaria.

Per quel che riguarda, poi, l’importante indice della mortalità evitabile Italia e Svezia (per citare due sistemi Beveridge), hanno dati nettamente migliori rispetto a quelli della Germania (e anche della Francia, altro sistema Bismarck). L’Italia è tra i paesi che meglio riesce a limitare il numero di morti evitabili e dei casi trattabili, anche in confronto con sistemi che in proporzione destinano più risorse al proprio sistema sanitario.

Il modello tedesco non può essere assunto come modello ma in alcune importanti aree, soprattutto in riferimento alla medicina di territorio, può offrire alcune importanti indicazioni anche per il nostro.

CAPITOLO 7 | L’EVOLUZIONE STORICA DEI SISTEMI SANITARI LOMBARDO E VENETO Marzo-maggio 2020: il primo impatto del Covid-19 sulle diverse sanità regionali

I tre sistemi sanitari di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono da considerare tra i migliori in Italia e nell’intera Unione europea. È bene interrogarsi sulle differenze, anche strutturali, che li hanno spinti ad adottare strategie diverse che hanno manifestato una diversa efficacia nel contenimento della diffusione dei contagi. È evidente che il sistema sanitario della Lombardia ha affrontato la diffusione della malattia privilegiando una assistenza incentrata fondamentalmente sul ricovero ospedaliero, e molto meno su di una rete di assistenza territoriale che permettesse di mantenere e seguire i pazienti presso il proprio domicilio. Al contrario, invece, Veneto ed Emilia Romagna hanno mantenuto stabile l’integrazione tra le tre tipologie di assistenza (Terapia Intensiva, Ricoveri Ordinari, Ricoveri Domiciliari), la qual cosa indica che questi due sistemi dispongono strutturalmente di una politica sanitaria meglio bilanciata fra le diverse tipologie di assistenza.

Le scelte strutturali che hanno definito nei decenni recenti l’evoluzione dei sistemi sanitari lombardo e veneto

La Lombardia presenta una densità di popolazione più elevata rispetto al Veneto (420 abitanti per km quadrato, contro 270) e un Pil pro capite più elevato: circa 34.221 euro, contro i 29.516 del Veneto (dato 2016). Malgrado questo, tutti gli 11 indicatori di benessere, compresa la salute, definiti Ocse sono praticamente identici nelle due regioni, così come l’età media (45,9 contro 45,4 anni) e l’aspettativa di vita (84 anni per entrambe). Entrambe le regioni sono inoltre sede di importanti aeroporti, e sono fortemente coinvolte nel commercio internazionale e nell’economia del turismo, presentando quindi analoghi rischi di esposizione ad agenti patogeni.

Anche il numero di posti letto ospedalieri per acuti su 1.000 abitanti è sostanzialmente sovrapponibile (3,05 in Lombardia contro 3,01 in Veneto), mentre il numero di adulti per medico di base è leggermente superiore in Lombardia (1.400) rispetto al Veneto (1.342). Anche la spesa sanitaria pro capite è simile.

Ma, scendendo nel dettaglio, emergono sostanziali differenze: in Lombardia ci sono tre laboratori di sanità pubblica (circa 1 ogni 3 milioni di abitanti) mentre in Veneto sono 10 (circa 1 ogni 500.000). In Lombardia ci sono 8 dipartimenti di prevenzione sanitaria pubblica (1 ogni 1,2 milioni di abitanti) contro i 9 del Veneto (1 ogni 500.000). Forti differenze si riscontrano anche relativamente all’assistenza domiciliare, più diffusa in Veneto che in Lombardia, come dimostra il ricorso all’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) che fornisce servizi domiciliari ad anziani, disabili e persone con patologie croniche. Nel 2017, l’anno più recente per il quale sono disponibili i dati, il programma ha servito 3,5 persone ogni 100.000 in Veneto, più del doppio rispetto alla Lombardia: 1,4 su 100.000.

I sistemi sanitari occidentali in larga parte sono stati costruiti attorno ad un concetto di alta qualità dei servizi al paziente che ha portato a concentrare i servizi stessi attorno alla struttura ospedaliera, tecnologicamente più avanzata e capace di erogare prestazioni più complesse rispetto alle strutture territoriali tradizionalmente concepite. L’epidemia ha messo in luce, invece, che è necessario un cambiamento di prospettiva verso un concetto di assistenza centrata sulla comunità e sul territorio.

In Veneto la maggiore integrazione tra i servizi sanitari territoriali e ospedalieri, unita alla presenza di una forte infrastruttura sanitaria pubblica, hanno favorito l’implementazione di un approccio comunitario che si è basato su pochi, solidi princìpi epidemiologici: test a tappeto, tracciamento dei contatti e limitazione dell’accesso alle strutture sanitarie attraverso l’utilizzo ove possibile di team diagnostici mobili e di un attento monitoraggio a domicilio. Il tutto reso fluido da una rapida comunicazione attraverso un sistema informatico che collegava laboratori, medici di base e le unità sanitarie pubbliche locali.

L’istituzione dell’Azienda Zero e il riassetto organizzativo delle ULSS in Veneto

Con la legge 25 ottobre 2016, n.19, la Regione Veneto, oltre a individuare un ente di governance della sanità denominato “Azienda Zero”, iniziava la riorganizzazione degli àmbiti territoriali delle Aziende Sanitarie, creando nove ULSS quale risultato dell’accorpamento delle precedenti ventuno ASL.

La finalità di tale scelta è quella di canalizzare nelle mani di un solo soggetto le funzioni di supporto alla programmazione sanitaria e socio-sanitaria e di coordinamento del SSR, riconducendo a esso le attività di gestione tecnico-amministrativa su scala regionale. La riorganizzazione prevedeva inoltre che entro il 31 dicembre 2017 si realizzasse un incremento del 15% del numero di posti letto negli ospedali di comunità, e del 60% di quello dei medici di medicina generale integrati nelle medicine di gruppo (destinato a crescere ulteriormente all’80%, entro il 31 dicembre 2018). L’offerta dell’assistenza ospedaliera veniva inserita all’interno di una logica di rete coordinata, integrando cioè reti cliniche e territorio e individuando conseguentemente il fabbisogno di personale medico ospedaliero.

Il Sistema sanitario regionale veneto e le esigenze territoriali

In questa prospettiva la gestione integrata dei servizi e la continuità dell’assistenza hanno rappresentato i due obiettivi principali del Piano 2012-2016.

Venne avviato un processo di riorganizzazione della rete dei servizi sanitari al fine di rafforzare la rete assistenziale e garantire la continuità delle cure attraverso: la diffusione della “Medicina di Gruppo integrata”, quale modello organizzativo per l’assistenza primaria; la definizione ed applicazione di percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali condivisi; lo sviluppo del modello di Centrale Operativa Territoriale quale strumento organizzativo funzionale a tutti gli attori della rete socio-sanitaria; lo sviluppo di strutture intermedie (ospedali di comunità e unità di riabilitazione) e Hospice, per la presa a carico di pazienti troppo complessi per poter essere trattati in un semplice regime ambulatoriale, ma sufficientemente stabili da non necessitare un ricovero ospedaliero.

Questa volontà di rafforzare la territorialità dell’offerta ha senz’altro dato risultati positivi. Basti pensare che negli anni dal 2012-2018 la copertura regionale delle medicine di gruppo e delle UTAP/Medicine di Gruppo è passata dall’interessare il 49,7% dei Medici di Medicina Generale, partendo da un 36,8%. Ciò ha avuto un impatto con quasi la metà degli assistiti della Regione.

Le 20 strutture Hospice presenti nella Regione (almeno una per ogni azienda ULSS), hanno permesso nel 2017 il ricovero di 3.062 pazienti, con un aumento del 23% rispetto al 2013. Il 99% ha riguardato residenti in Veneto. Il 2% degli assistiti aveva tra i 18 e i 44 anni, il 18% tra i 45 e i 64 anni, il 63% tra i 65 e gli 84 anni e il 17% oltre gli 85. Questi dati stanno ad indicare una forte capacità strutturale/territoriale per la presa in cura della terza età (punto chiave rispetto alla Germania dove la qualità della vita dopo i 65 anni è migliore, proprio grazie ad una migliore assistenza territoriale).

Dei pazienti presi in carico, il 60% dei ricoverati proveniva da una struttura ospedaliera, l’11% da casa senza essere inseriti in un programma di assistenza domiciliare, il 27% dalla propria abitazione con un servizio di cure domiciliari attive (in aumento rispetto agli anni precedenti); il restante 2% da altre strutture territoriali. Particolarmente rilevanti sono le due percentuali dell’11% e del 27%, che sommate totalizzano un 38% di pazienti la cui presa a carico è frutto diretto di una valida integrazione territoriale assistenziale. Allo stesso tempo, il 60% dei ricoveri provenienti da strutture ospedaliere indica la capacità della sanità regionale di liberare posti letto, riuscendo comunque a garantire una de-ospedalizzazione graduale fondata su cure di qualità ramificate nel territorio.

Nel 2017 le strutture Hospice hanno visto 3.062 ricoveri, su un totale di 194 posti letto complessivamente disponibili (una media di 9,7 tra le varie ULSS), raccogliendo mediamente 162 pazienti al giorno (tasso di occupazione dell’83%) per una degenza media di 19,3 giorni.

Nel complessivo miglioramento della rete territoriale, la Regione veneta ha fatto un ricorso limitato al privato. La quota di prestazioni ambulatoriali private risulta inferiore all’8% (264 milioni nel 2018 rispetto a 286 nel 2010), e i finanziamenti verso il settore privato sono diminuiti del 5% tra il 2010 e il 2018, da 574 milioni a 544 milioni. Nel 2010 il fondo sanitario regionale assommava a 8 miliardi e 137 milioni, e di questi 719 milioni sono stati stanziati per i privati. Nel 2018 i fondi sanitari regionali hanno totalizzato 8 miliardi e 913 milioni (+9%), e di questi 634 milioni sono andati a privati (-12%).

Nella sanità veneta, dunque, il pubblico gestisce la maggior parte dei servizi altamente specializzati e i servizi ospedalieri di emergenza. Negli ultimi anni si sono investiti circa 70 milioni di euro annui per fornire agli ospedali pubblici apparecchiature di ultima generazione, e ciò ha contribuito ad accreditare verso l’utenza l’idea di prestazioni sanitarie pubbliche di qualità non inferiore, certo, a quella che si attribuisce solitamente al privato. Riguardo la spesa pro capite dei cittadini a favore dei privati, il Veneto risulta essere al decimo posto in Italia con una spesa pro capite di 123 euro, una cifra più contenuta rispetto ad altre grandi regioni come il Lazio (con un consumo record di 281 euro), Lombardia e Campania, Puglia, Sicilia, Molise, Trento, Piemonte e Calabria.

Confrontando la percentuale di posti letto nelle strutture del privato accreditato in Veneto con quella nazionale, si riscontra che il settore privato accreditato assorbe il 18% dei posti letto totali, mentre la media nazionale è al 29%. Ciò riflette l’impegno del governo regionale nel sostenere un sistema sanitario fortemente orientato al settore pubblico.

Il settore pubblico nel 2010 garantiva infatti il 73% del volume delle prestazioni specialistiche ambulatoriali; questo valore è salito all’84% nel 2018, mentre i fornitori privati accreditati hanno contratto la loro attività nello stesso periodo: dal 27% del 2010, al 16% del 2018. Conseguentemente il budget destinato alle istituzioni private accreditate che erogano prestazioni ambulatoriali si è ridotto da 129 milioni di euro (valore 2010) a 116 milioni di euro (valore 2018).

In conclusione, quindi, la Sanità Pubblica in Veneto è riuscita a limitare la crescita del privato e per certi versi anche ad invertirne la tendenza, effetto questo di importanti investimenti che hanno permesso alle realtà ospedaliere di rimanere competitive in termini qualitativi e tecnologici. Inoltre, l’aumento della capacità territoriale ha permesso una riduzione netta nella percentuale totale di ospedalizzazione, indice di buona qualità dei servizi territoriali offerti e di apprezzabile capacità manageriale.

Il Sistema Sanitario lombardo e la riforma del 2015: un tentativo di integrazione

Nel 2015 la legge n.23/2015 ha ristrutturato le preesistenti 15 ASL e le 30 AO, creando due nuove tipologie di enti:

–  27 ASST – Aziende Socio Sanitarie Territoriali, con bacino di circa 400.000 abitanti coincidente con un distretto di nuova identificazione, che collaborano con gli altri soggetti erogatori del sistema ‒ di diritto pubblico e di diritto privato ‒ all’erogazione dei LEA secondo il principio di “presa in carico della persona”; queste nuove aziende coincidono con le preesistenti Aziende Ospedaliere integrate dalle attività territoriali ereditate dalle ASL.

–  8 ATS – Agenzie di Tutela della Salute, competenti su un’area vasta di circa un milione di abitanti, a cui spetta la programmazione definita dalla Regione, e che assicurano, con il concorso di tutti i soggetti erogatori, i LEA mediante l’acquisizione dalle ASL delle funzioni di programmazione, acquisto e controllo.

In seguito a tale cambiamento venne ulteriormente precisato il ruolo del governo regionale, identificando le seguenti finalità del riordino e funzioni, strumenti programmatori ed organizzativi regionali: istituzione dell’Assessorato alla salute e politiche sociali “Welfare”; definizione dei Piani regionali “socio- sanitario integrato” e “della prevenzione”; creazione dell’Osservatorio epidemiologico regionale e di agenzie regionali, destinate ciascuna ad una specifica area.

Al fine di indirizzare questa transizione verso una maggiore attenzione al territorio, la Regione introdusse i Collegi Tecnici dei Direttori di ATS e ASST, che nei vari passaggi che portano alla DGR Indirizzi regionali per la presa in carico della cronicità e della fragilità, non contemplavano le strutture private.

La trasformazione delle ASL in ATS/ASST non avvenne però in maniera organica. Non risultava chiaro a chi dovessero essere trasferiti alcuni ruoli e compiti precedentemente appartenuti alle ASL. Questo è uno dei motivi per cui si ritiene che durante la pandemia alcune attività e competenze, quali quelle di approvvigionamenti dei DPI, non si riferissero ad una specifica responsabilità.

Questo tentativo di riforma, inoltre, mancò di definire chiaramente gli strumenti di governo “periferici” attraverso i quali realizzare una maggiore integrazione ospedale-territorio. Ciò provocava notevoli contraddizioni: i distretti, si espandevano, riducendosi però la loro funzione di coordinamento; questa espansione finiva col limitare la collaborazione con i Comuni e la valorizzazione delle comunità locali; il medico di famiglia, che avrebbe dovuto mantenere e potenziare il ruolo di filtro e di attore principale soprattutto in relazione alla presa in cura delle cronicità esistenti sul territorio, veniva invece marginalizzato, sottoposto ambiguamente alle dipendenze sia dell’ATS sia dell’ASST.

L’approntamento di un sistema in cui i VMD, i PI, e i PAI determinavano “matematicamente” i bisogni farmacologici e di visite necessarie per il paziente, unito alla marginalizzazione della figura del MMG, finirono con l’orientare in maniera crescente i cittadini verso un’ulteriore centralità dell’assistenza ospedaliera, e in particolare verso quella privata percepita più efficiente ed attraente.

La spesa per medico di base in Lombardia, partendo già nel 2008 da valori ben al di sotto della mediana nazionale, e ha continuato a subire riduzioni più o meno costanti, fino ad occupare una delle ultime posizioni nel panorama nazionale. Dal confronto dei dati riferiti a Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte emerge che in regioni quali l’Emilia Romagna e il Veneto, pur avendo subìto oscillazioni, la curva si è mantenuta più o meno stabile nel tempo. Questa stabilità, che certamente segnala il mantenimento del ruolo e peso della medicina territoriale, nelle regioni, da questo punto di vista “virtuose”, si è riflessa nel ruolo non marginale che i medici di medicina generale hanno avuto nella strategia integrata, che ha permesso di affrontare con importanti risultati l’impatto dell’epidemia.

In Lombardia le strutture private sono fortemente distribuite su tutto il territorio regionale, e particolarmente rilevanti in termini di percentuale e valore delle prestazioni erogate rispetto al pubblico. Inoltre, non essendo sottoposto a specifiche regole di contrattazione e programmazione da parte della Regione, il privato può selezionare le prestazioni ed i pazienti più convenienti ai quali erogare i propri servizi, ovvero quelli con un più alto rimborso per prestazione. Ciò è avvenuto sia prima che durante la pandemia. Non è un caso, quindi, che in Lombardia si contino 20 centri di cardiochirurgia per lo più privati, mentre nell’intera regione dell’Île de France ve ne sono “solo” 14, per una popolazione residente superiore del 15%.

CAPITOLO 8 | VERSO IL SUPERAMENTO DELLA MEDICINA DIFENSIVA1

La cosiddetta “legge Gelli-Bianco” (legge 8 marzo 2017, n.24) e, in particolare, l’Accertamento Tecnico Preventivo volto alla conciliazione della lite (art. 696 bis C.p.c.) costituisce, con la mediazione, preliminare condizione di procedibilità della controversia. In sostanza, non è possibile proporre la causa vera e propria se prima non si è proceduto o a effettuare una mediazione (esistono organismi ad hoc autorizzati dal Ministero della Giustizia) o a proporre un ricorso per l’Accertamento Tecnico Preventivo. Quest’ultimo consiste in un ricorso al tribunale competente con il quale si chiede che – ai sensi della “legge Gelli” – venga nominato un Collegio peritale (medico legale e specialista) che stabilisca se sussista o meno la responsabilità medica dedotta dal ricorrente.

La XIII Sezione del Tribunale di Roma è composta da sedici magistrati che si occupano in via esclusiva di responsabilità professionale; nell’àmbito di tale responsabilità, quella sanitaria è pari a circa l’85%/90% del totale. Il Tribunale di Roma è quello che tratta il maggior numero di cause di responsabilità medica e delle strutture sanitarie tra tutti i tribunali italiani (il 35% circa del totale), i risultati dell’indagine sono dunque ben rappresentativi del dato nazionale.

La consultazione dell’archivio della XIII Sezione, partendo da circa 2.000 Accertamenti Tecnici Preventivi dal 1° aprile 2017 (data di entrata in vigore della “legge Gelli-Bianco”) al 31 dicembre 2021 ha permesso all’Eurispes di repertare gli Accertamenti Tecnici Preventivi effettuati da 336 medici legali. Gli accertamenti tecnici considerati sono complessivamente 1.380.

L’indagine ha reso possibile una prima, accurata, valutazione dell’impatto della “legge Gelli”, relativamente agli Accertamenti Tecnici Preventivi volti alla conciliazione della lite (art.696 bis C.p.c.) che rappresentano il primo livello della sua applicazione.

La Legge Gelli si prefiggeva, tra gli altri, un obiettivo ben preciso: quello di combattere la cosiddetta “medicina difensiva”, cioè una serie di comportamenti tenuti dall’operatore sanitario nei confronti del paziente con il solo fine di evitare il rischio della insorgenza dei contenziosi civili e penali a carico del medico e/o della struttura sanitaria. La medicina difensiva, oltre a costringere i medici in trincea, incide sul Servizio Sanitario Nazionale per circa 10 miliardi l’anno, il che è pari allo 0,75% del Pil (dati aggiornati al 2014). A cinque anni dall’entrata in vigore della legge, nonostante alcune previsioni necessitino ancora dei decreti attuativi per poter dispiegare i propri effetti, dai risultati emersi appare come, almeno in parte e specularmente per il settore della responsabilità civile, la norma abbia raggiunto alcuni degli obiettivi prefissati. Il dato di maggiore rilevanza è che nell’analisi dei 1.380 ATP esaminati, i medici non risultano essere personalmente coinvolti nel 70,3% dei casi, mentre lo sono nel 29,7%.

Dalla ricerca emerge che gli ATP che si concludono positivamente per il paziente sono il 65,3%, mentre l’esito è stato positivo per la struttura il 31,1% delle volte; nei due terzi dei casi, dunque, la responsabilità professionale della struttura sanitaria e/o del medico risultano effettive. Si tratta di un dato inatteso, proprio perché l’ATP, che rappresenta il vero fulcro e cardine del procedimento, non è altro, sostanzialmente, che un giudizio che dei medici danno sull’operato di altri medici. Nel 29% degli ATP vi è stata una chiamata in causa dell’assicurazione.

Guardando alla tipologia di convenuto, il 40,4% delle volte risulta trattarsi di una struttura pubblica, il 36,1% di struttura privata e, nell’11% dei casi, di medico persona fisica/assicurazione.

Analizzando il dettaglio dei settori specialistici interessati, emerge che il settore coinvolto più spesso è ortopedia (16,3%), seguito da chirurgia (13,2%) e da infettivologia (11,7%); nel complesso dunque il 41,2% degli ATP interessa questi tre settori.

I dati indicano dunque, da un lato, come la maggioranza delle richieste di accertamento non sia pretestuosa ed evidenzi responsabilità mediche e delle strutture sanitarie, dall’altro come i medici specialisti chiamati a valutare, in qualità di consulenti tecnici di ufficio, siano corretti e trasparenti nell’accertamento delle responsabilità dei colleghi. Si evidenzia inoltre come in alcuni casi vi sia un problema di funzionamento delle strutture mediche e ospedaliere piuttosto che una responsabilità dei medici.

Il contrasto al fenomeno della medicina difensiva necessita anche e soprattutto di un intervento sociale e culturale di sistema, incentrato sul diritto ad un’adeguata informazione dei cittadini sulla efficacia degli interventi sanitari, costruito mediante il dialogo tra il paziente e il medico. Un particolare sforzo, dunque, dovrà essere fatto in questa direzione.

APPENDICI

In Appendice, due documenti appositamente elaborati dalla Guardia di Finanza e dall’Arma dei Carabinieri trattano il tema del contrasto agli illeciti in materia sanitaria, attraverso la descrizione delle metodologie di monitoraggio e controllo e la rendicontazione dei risultati operativi, confermando l’alto livello di attenzione riservato dalle Magistrature e dalle Forze di Polizia al fenomeno della “malasanità”.

APPENDICE 1| L’ATTIVITÀ DELLA GUARDIA DI FINANZA IN MATERIA DI SPESA SANITARIA L’azione di contrasto agli illeciti in materia di spesa sanitaria

La Guardia di Finanza svolge un ruolo centrale nell’azione di presidio della corretta destinazione dell’impiego delle risorse pubbliche.

Nel quadro del bilancio pubblico, il comparto della spesa sanitaria riveste un’importanza di primo piano e rappresenta una delle principali leve della finanza pubblica per il raggiungimento degli obiettivi di solidarietà economica e sociale del Paese.

In tale settore, l’attività del Corpo è finalizzata a prevenire e reprimere le condotte di malversazione, corruzione, truffa, nonché i casi di indebite richieste e/o percezione di risorse ed ogni altra forma di illecito lesiva del corretto funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Allo scopo di assicurare uno scambio informativo nella materia della spesa pubblica, la Guardia di Finanza da tempo persegue una strategia volta a rafforzare ed incrementare i rapporti di collaborazione con i principali attori istituzionali che si occupano della gestione della spesa sanitaria, attraverso la stipula di protocolli di intesa.

Tali accordi, a fattor comune, prevedono generalmente la comunicazione alla Guardia di Finanza di informazioni qualificate in ordine ai beneficiari di provvidenze pubbliche, nonché la segnalazione di specifici fenomeni di irregolarità e di frode, per lo sviluppo di autonome azioni ispettive.

La collaborazione si esplica sia a livello locale, mediante accordi tra i Comandi Regionali e Provinciali del Corpo con le Regioni e altre autorità, fino a livello delle Aziende sanitarie locali, sia a livello nazionale, come da ultimo avvenuto tramite la stipula del Protocollo di intesa tra il Comando Generale del Corpo e l’Agenzia nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS), in data 2 settembre 2022.

L’intesa ha la finalità condivisa di prevenire e contrastare condotte lesive degli interessi economici e finanziari pubblici connessi al funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale, nel cui àmbito AGENAS sviluppa i processi di analisi, misurazione, coordinamento, valutazione e monitoraggio di competenza.

Nel dettaglio, l’Agenzia rende accessibili alla Guardia di Finanza dati, notizie, informazioni e analisi di contesto, al fine di prevenire e reprimere irregolarità, frodi ed abusi di natura economico-finanziaria.

AGENAS provvede quindi a segnalare al Corpo, per il tramite del Nucleo Speciale Spesa Pubblica e Repressione Frodi Comunitarie, ogni utile elemento informativo concernente i flussi di spesa relativi al SSN, segnalando le casistiche maggiormente caratterizzate da profili di rischio di irregolarità.

I risultati dell’attività operativa

Nel triennio 2019-2021, la complessiva azione della Guardia di Finanza nel contrasto alle frodi al Servizio Sanitario Nazionale ha portato all’esecuzione di 941 interventi, con la contestuale denuncia all’Autorità giudiziaria di 526 persone, di cui 39 tratte in arresto.

A fronte del valore della spesa controllata complessivamente superiore a un miliardo di euro, sono state scoperte frodi per un importo di quasi 214 milioni di euro ed eseguiti sequestri per oltre 47,5 milioni a carico dei soggetti responsabili.

Significativo è pure il dato riferito all’ammontare degli appalti controllati nello specifico settore (oltre 4 miliardi di euro), con assegnazioni irregolari superiori a un miliardo di euro, e dei danni erariali accertati (833 milioni di euro).

La Componente speciale della Guardia di Finanza ha assicurato un fondamentale contributo a favore dei reparti territoriali, mediante lo sviluppo di analisi di rischio e di contesto, calibrate in funzione di un efficace contrasto ai “fenomeni illeciti di massa”, focalizzando l’attenzione info-investigativa verso le condotte irregolari più significative.

Si evidenzia, infine, che una delle prioritarie aree di intervento del Corpo nell’azione di vigilanza in materia di spesa sanitaria continua ad essere il riscontro delle condizioni economico-patrimoniali che consentono di beneficiare dell’esenzione del pagamento del ticket sanitario. Dagli 8.339 relativi controlli effettuati nel triennio 2019-2021 sono emerse irregolarità nell’86% dei casi.

Principali servizi svolti nel triennio 2019-2021

Con specifico riferimento all’anno 2019, le frodi più diffuse hanno riguardato le indebite percezioni di rimborsi e pagamenti da parte del Servizio Sanitario Nazionale (29 milioni di euro) e la fraudolenta gestione di ricoveri e prestazioni da parte di strutture accreditate al SSN (15,9 milioni di euro), pari al 73% del totale delle truffe rilevate nel settore in argomento. Anche nell’anno 2020 le fattispecie illecite di maggior rilievo sono state rappresentate dalle indebite percezioni di rimborsi e pagamenti da parte del Servizio Sanitario Nazionale (per oltre 43 milioni di euro) e dalla fraudolenta gestione di ricoveri e prestazioni da parte di strutture accreditate al SSN (oltre 41 milioni di euro), pari al 72,3% del totale delle truffe rilevate nel settore in argomento.

APPENDICE 2 | L’ATTIVITÀ DELL’ARMA DEI CARABINIERI: RUOLO E CONTRIBUTO DELLA SPECIALITÀ ALLA TUTELA DELLA SALUTE

Compiti e prerogative della specialità

L’Arma dei Carabinieri, per il tramite del Comando Carabinieri per la Tutela della Salute ‒ quale Reparto Speciale posto alle dipendenze funzionali del Ministro della Salute ‒ concorre nelle attività di controllo, attribuite e sviluppate a vario titolo dagli Organi di Vigilanza del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), affinché siano salvaguardate norme e cautele che garantiscono la tutela della salute. I 38 Nuclei Antisofisticazioni e Sanità (NAS) sono le unità operative con competenza regionale, interprovinciale/provinciale, coordinate, a livello centrale, dal Comando Carabinieri per la Tutela della Salute di Roma e, a livello interregionale, da tre Gruppi per la Tutela della Salute, ubicati a Milano, Roma e Napoli. Inoltre, sempre alle dipendenze del Comando, sono presenti due strutture operanti con competenza nazionale: un Reparto Operativo e un Nucleo Carabinieri presso l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco).

Risultati operativi del Comando Tutela per la Salute

Nel periodo 2019-2022, l’attività di controllo svolta dal Comando Tutela per la Salute può essere riepilogata con i seguenti risultati: l’esecuzione di 245.566 ispezioni, individuando 55.297 obiettivi con esiti non conformi, pari al 22% dei controlli effettuati; il sequestro di: a) 149mila tonnellate di derrate alimentari irregolari e oltre 4 milioni di confezioni di prodotti non idonei al consumo; b) 4,3 milioni di farmaci; c) 20 milioni di dispositivi medici e presidi medico-chirurgici; la contestazione di: a) 39.210 infrazioni penali; b) 48.955 infrazioni amministrative (carenze igienico-strutturali ed autorizzative, omessa notifica inizio attività, attuazione del piano di autocontrollo, mancanza di tracciabilità e etichettatura irregolare), per un importo di oltre 82 milioni di euro; l’esecuzione di 439 misure cautelari personali; la denuncia di 20.089 persone alle competenti Autorità Giudiziarie; il deferimento di 48.955 persone alle Autorità Amministrative; la chiusura/sequestro di 5.914 strutture del settore.

Emergenza pandemica

Dal febbraio 2020, con l’inizio dell’emergenza dovuta alla diffusione della pandemia, i Carabinieri NAS hanno dedicato importanti risorse e attenzione operativa alla verifica del rispetto delle misure di contenimento e al corretto impiego di medicinali, vaccini e dispositivi medici utilizzati nello specifico àmbito.

Sono stati effettuati oltre 80.000 controlli dedicati all’emergenza Covid che hanno determinato il sequestro complessivo di:

–  13,5 milioni di mascherine e DPI (guanti, camici) irregolari, importati clandestinamente e con false dichiarazioni di qualità;

–  700mila confezioni di prodotti igienizzanti vantanti proprietà disinfettanti e biocide non possedute, immesse in commercio in assenza di registrazione e con data di scadenza superata;

–  2,8 milioni di kit, test diagnostici, dispositivi medici;

–  136mila farmaci cinesi e di origine africana importati illegalmente;

–  643 siti web, oggetto di illecita promozione e vendita di medicinali per il trattamento e prevenzione del Covid-19, vietati o privi di evidenze scientifiche.

Tutela della salute nel settore sanitario e farmaceutico

La particolare “appetibilità” economica del settore della sanità pubblica può favorire una predisposizione all’infiltrazione di imprenditorie spregiudicate o connesse a strutture criminali, tipicamente dotate di ingente liquidità e forte potere coercitivo, determinando un’aggressione patrimoniale e un condizionamento della imparzialità dei soggetti pubblici deputati alla gestione della Spesa sanitaria.

In tale contesto, i Carabinieri Nas perseguono condotte censurabili penalmente, commesse da dirigenti e dipendenti della Pubblica amministrazione, in complicità con imprenditori e operatori di settore, quali principali forme di permeazione della criminalità comune e strutturata nell’ambito del comparto sanitario pubblico. In particolare, dall’esperienza acquisita dalla Specialità nel corso di variegate tipologie di attività investigative, sono state eseguite numerose indagini che hanno consentito di smantellare sodalizi criminali dediti al condizionamento di gare pubbliche per l’assegnazione di:

–  forniture di materiale sanitario, farmaci ad uso ospedaliero, apparecchiature elettromedicali e di diagnostica, protesi e dispositivi medici;

–  servizi sanitari di svariate finalità ed esigenze, esternalizzati e affidati a imprese private, quali il trasporto di urgenza/emergenza, attività infermieristiche, servizi sociali e assistenziali;

–  servizi extra-sanitari affidati in gestione esterna al settore privato, come la fornitura di vettori energetici, l’esecuzione di manutenzione edile, la gestione di sistemi informatici e l’erogazione di servizi di pulizie degli ambienti;

– opere di ammodernamento e ristrutturazione straordinaria di immobili di carattere sanitario, come ospedali, ambulatori e sedi di aziende sanitarie.

I fenomeni illeciti che possono coinvolgere dirigenti della Pubblica amministrazione, in complicità con imprenditori e libero-professionisti nonché con operatori di settore e cittadini privati, sono molteplici e possono riguardare:

      • –  dazioni di danaro e altre utilità per evitare tempi di attesa per prestazioni sanitarie;
      • –  richiesta di denaro per prestazioni comunque a carico del S.S.N.;
      • –  false attestazioni sui redditi percepiti al fine di ottenere esenzioni del ticket;
      • –  falsificazione di ricette per approvvigionamento indebito di medicinali, posti indebitamente a carico del S.S.N.;
      • –  prestazioni chirurgiche/riabilitative non autorizzate, non erogate e/o prestate diversamente, per tipologia e quantità, rispetto a quanto dichiarato dalle strutture sanitarie convenzionate ai fini del rimborso al S.S.N.

L’impegno offerto dai Carabinieri dei NAS è descritto dalle oltre 131mila ispezioni condotte dal 2019 al 2022, i cui esiti hanno determinato il deferimento all’Autorità giudiziaria di 15.581 persone e la contestazione di oltre 20mila sanzioni amministrative per complessivi 21,5 milioni di euro.

Nel corso delle indagini, sono emerse situazioni delittuose particolarmente gravi, tali da determinare l’emissione da parte dell’AG di 364 ordinanze di custodia cautelare per traffico illecito di farmaci dopanti o provento di reato, corruzione e truffa aggravata in danno della Sanità pubblica, condizionamenti di forniture mediche e di medicinali, abusivismo sanitario e assenteismo.

Nei controlli del periodo 2019/2022 sono state chiuse 1.600 imprese, cliniche e strutture non conformi alle normative, sequestrando 4,3 milioni di farmaci e oltre 20 milioni di dispositivi medici e prodotti sanitari, per un valore commerciale complessivo di 40 milioni di euro.

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