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La violenza genera violenza, ma la gentilezza genera gentilezza.

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Nella Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne ospitiamo le riflessioni di una collega ostetrica, Paola Rotondo, che ci fa riflettere anche sulla gentilezza che genera gentilezza.

Egr. Direttore,

prima di addentrarmi nel tema della violenza ostetrica, risulta fondamentale darne una definizione: con il termine di violenza ostetrica si fa riferimento a qualsiasi abuso fisico, psicologico e verbale avvenuto in ambito ostetrico, ginecologico e neonatale. La violenza ostetrica compare ogni volte che:

– si minimizzano sensazioni e sintomi riferiti dalla donna, inducendola a non dare ascolto alle proprie sensazioni, al proprio corpo e al bambino;

– si danno informazioni parziali, incomplete e/o non obiettive che non fanno sentire la donna coinvolta nella decisione terapeutica finale;

– non si considerano le esigenze della donna;

– si agisce senza consenso.

Paola Rotondo, Ostetrica
Paola Rotondo, Ostetrica

Va precisato che trattamenti irrispettosi e abusanti si identificano, oltre che in ambito ostetrico e quindi strettamente legati al travaglio e alla nascita, anche in altri ambiti come: l’aborto, l’allattamento, la fecondazione assistita, le visite ginecologiche e molto altro.

Altro elemento fondamentale che emerge dalla definizione offerta di violenza ostetrica è che essa può essere compiuta da qualsiasi operatore sanitario e non sono dalle ostetriche/ci della sala parto. Faccio questa precisazione perché l’accostamento alla parola “violenza” dell’attributo “ostetrica” diventa, il più delle volte, strumento di pregiudizi e attacchi accusatori nei confronti delle sole ostetriche, quelle figure professionali che da sempre lottano per garantire la fisiologia e il rispetto dell’evento parto e che, quando consapevoli dell’esistenza della violenza ostetrica nel contesto lavorativo nel quale operano, soffrono nel non riuscire a disinnescare meccanismi gerarchici e di potere che rendono il parto sempre più un evento meccanico, medicalizzato e routinario.

Ci tengo a precisarlo perché ricordo ancora il senso di impotenza vissuto sulla mia pelle quando, sotto pressione medica, nel rifiutare di eseguire un’episiotomia (ossia l’incisione del perineo durante il periodo espulsivo) fui spostata dal medico di guardia, il quale sostituendosi a me la eseguì non solo precocemente e senza una reale indicazione ma soprattutto senza nemmeno informare la donna. Ricordo ancora l’orrore di quel taglio, il mio indietreggiare e scusarmi alla donna. Ricordo ancora le lacrime amare che sgorgarono su quelle guance che tante volte hanno sorriso e detto SI alla vita. Mi domando: l’ostetrica, in questo caso io ma come me tante altre, che non ha saputo evitare quello scempio è carnefice o vittima? E la donna, che sta dentro quell’ostetrica, che crede in quello che fa e ama farlo con passione e dedizione, è vittima o coautrice di una violenza?

Lascio a voi la riflessione…

Nel frattempo ritorno alla definizione di violenza ostetrica, a quella definizione in cui si evidenza che questo fenomeno non si riferisce alla volontà degli operatori di ferire o abusare bensì al loro imporre cure standardizzate senza consenso e, frequentemente, senza un’adeguata informazione della donna, che perde dunque la sua capacità di compiere scelte autonome e responsabili. Preciso ciò in quanto spesso gli operatori sanitari non si accorgono di mettere in atto comportamenti prepotenti o abusanti in quanto si sono formati ed hanno, poi, sempre continuato ad operare in un modello di assistenza fondato sulla centralità dell’operatore piuttosto che della paziente. D’altro canto c’è da dire anche che, delle volte, alla base di un atteggiamento scontroso e poco empatico degli operatori sanitari vi è la stanchezza legata ad un contesto lavorativo repressivo, in cui vi è carenza di personale, turni massacranti e sistemi gerarchici. Tutto ciò ovviamente non va preso come attenuante ma solo come riflessione per poter organizzare meglio i contesti lavorativi e permettere al personale sanitario di poter lavorare in climi più sereni e rispettosi.

La violenza non va mai giustificata o accettata. Non può essere negata né si può far finta che non sia mai esistita.

Al giorno d’oggi si parla tanto di violenza ostetrica e ci prodighiamo tanto, noi ostetriche, a difendere il concetto di parto dolce, di nascita rispettata, di parto naturale, di nascita senza violenza, ma occorre fare una riflessione: le donne, che spesso denunciano casi di violenza ostetrica, sono davvero pronte per un parto dolce?

Se in primis le donne vivono la gravidanza, il parto e la nascita come “eventi medici” sempre potenzialmente a rischio (e, dunque, da sottoporre a mensili controlli medici non consigliati dall’OMS) come possiamo parlare di gravidanza fisiologica e parto naturale?

Come possiamo lottare noi ostetriche per una nascita rispettata quando alcune donne ancora ringraziano il medico per averle aiutate a “ridure” i tempi del periodo espulsivo facendo la manovra di <Kristeller> ? Sappiamo tutti cos’è questa manovra? Beh, se cosi non fosse ci tengo a precisare che si tratta di una violenta spinta a livello del fondo dell’utero eseguita dal medico durante la contrazione e la spinta della mamma, che ricordo essere “non raccomandata” dal Ministero e Istituto Superiore della Sanità nonché da numerosi trial clinici randomizzati.

Ecco, sulla base di quanto appena detto mi viene da dire che se vogliamo davvero cambiare le cose, è importante che ogni donna interiorizzi davvero il concetto di nascita dolce e rispettata. E’ importante che le donne desiderose di un parto naturale siano armate di conoscenze appropriate per capire quando il personale attui i giusti interventi per garantire un parto naturale, quando siano dati “aiuti” che aiuti poi non sono o quando risulti necessario medicalizzare il parto poiché le cose si allontanano dalla fisiologia ed alternative non ci sono. Se è vero che le donne attualmente sono sempre più consapevoli delle loro possibilità e dei loro diritti, è altrettanto importante che nel tentativo di contrastare la medicalizzazione del parto non si esasperi il concetto di violenza ostetrica. Alla medicina della paura e della sfiducia nei confronti del corpo (e che, dunque, ci induce a medicalizzare un evento cosi fisiologico ed istintivo), noi ostetriche siamo chiamate a contrapporci insegnando la medicina della fiducia e dell’amore! Per far ciò, è necessario che ci sia la collaborazione e la volontà di lottare contro la violenza ostetrica sia da parte delle figure professionali coinvolte sia delle donne stesse: occorre combattere la mancanza di tatto e rispetto nei confronti delle mamme e del bambino, al momento del parto/nascita e non solo, ma occorre anche affidarsi e fidarsi degli operatori. Pertanto, laddove la donna percepisce di non star scegliendo nel suo percorso terapeutico è invitata a porre domande per conoscere il procedimento che si sta per attuare, per conoscere le alternative con i vantaggi e le conseguenze al fine di prendere consapevolezza circa le risorse disponibili e la necessità di ottenere “protezione” quando compaiono “rappresaglie” che ci allontanano dalla fisiologia e richiedono la medicalizzazione dell’evento nascita.

La mia personale reazione nei confronti della violenza ostetrica prevede la creazione, con la donna, di un rapporto basato sull’ascolto, il dialogo ed il confronto. Da sempre ai Corsi di Accompagnamento alla Nascita sostengo che la violenza non può essere debellata attraverso una controffensiva aperta. E meno ancora quando si ha un neonato in braccio e c’è bisogno di latte, tenerezza, contatto e amore. E’ proprio in quei momenti che bisogna cercare alleanza con gli operatori sanitari. Alla violenza non si risponde con la violenza bensì con la gentilezza perché quest’ultima disarma sempre. La gentilezza genera gentilezza quindi, seppur difficile, invito le donne vittime di violenza ostetrica a far arrivare la propria voce, con gentilezza, al cuore di quegli operatori che hanno difficoltà ad essere empatici, trasformandosi in complici di un sistema repressivo. Invito dunque le donne, e per mezzo di questo articolo anche gli operatori sanitari, a non puntare il dito contro nessuno ma a fermarsi ad ascoltare ciò che l’altro ha da dire, comprenderne la storia di vita, le loro credenze e cercare di tradurre ciò che ci porta ad essere potenziali vittimi o potenziali aggressori. L’esperienza mi insegna che l’informazione, la gentilezza, il dialogo responsabile, il perdono, la relazione empatica, l’ascolto, la (ri)costruzione della fiducia sono gli antidoti della violenza.

Quando ci si torva a far i conti con essa, occorre trasformare la ferita che essa lascia in una cicatrice o meglio in coraggio di guarigione e luce interiore!

Per concludere, vorrei citare il movimento globale contro la violenza ostetrica “Lasciamo parlare le rose”: un movimento che dal 2013 ogni 25 Novembre invita le donne che sentono di aver subito abusi durante il parto a deporre una rosa davanti alla sala parto dove hanno partorito e volendo, accompagnare la rosa con una lettera che racconta le loro sensazioni.

Paola Rotondo, Ostetrica

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