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Turni di lavoro comunicati tardi. Il dipendente può chiedere danni al datore, ma se ha avuto nocumento.

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Se i turni di lavoro vengono comunicati ripetutamente in ritardo dal datore il dipendente può chiedere danni, ma solo se dimostra nocumento.

Infermieri, Oss e Professioni Sanitarie ora hanno una possibilità di essere risarciti dall’azienda sanitaria per cui lavorano se riescono a dimostrare danni dalla presentazione tardiva dei turni di lavoro.

Lo ha stabilito nel 2018 la Corte di Cassazione, che ha ribadito la necessità fa parte del lavoratore di dimostrare il danno subito. È un problema quello degli orari di lavoro che riguarda tutto il mondo sanitario e non solo e che mette spesso in difficoltà colleghi che hanno situazioni familiari particolari.

Ora i giudici danno una possibilità di rifarsi sul datore, soprattutto nei casi in cui la tardiva presentazione degli orari ha creato nocumento tra i dipendenti.

Ecco cosa dice in meritola sentenza della Cassazione n. 21562 del 2018.

Con la sentenza n. 21562 del 3 settembre 2018 la Cassazione torna sul tema del diritto del lavoratore a potere organizzare il proprio tempo di vita.

La questione è affrontata sotto il profilo della necessità di comunicare al lavoratore  i turni con ragionevole anticipo.

Nel caso esaminato un lavoratore part-time ricorre in Cassazione rilevando – tra i vari aspetti – l’illegittimità della pronuncia della Corte di merito che gli aveva negato il diritto al risarcimento del danno causato dalla comunicazione tardiva dei turni di servizio.

La Corte territoriale aveva rigettato questa domanda sul presupposto che non erano state allegate le fonti normative o contrattuali dalle quali evincere l’esistenza di un obbligo di tempestiva comunicazione dei turni.

Secondo il ricorrente, invece, l’obbligo di comunicare con ragionevole anticipo i turni di lavoro discenderebbe direttamente dai principi di buona fede e correttezza. Principi che suggerirebbero – a detta del lavoratore – una comunicazione dei turni almeno quindici giorni prima.

La Suprema Corte – pur aderendo parzialmente a questa impostazione e pur riconoscendo il diritto del lavoratore a poter programmare il tempo libero – rigetta il ricorso.

Si legge nelle motivazioni: “nei rapporti di lavoro, siano essi a tempo pieno o a tempo parziale, il tempo libero ha una sua specifica importanza …. ne consegue che se è evidentemente consentito al datore di lavoro … organizzare l’attività in turni di servizio, ciò nonostante, pur in assenza di disposizioni specifiche di legge o di contratto, questi devono essere portati a conoscenza del lavoratore con un ragionevole anticipo così da consentire loro una programmazione del tempo di vita”.

Ciò discende «sia dalla buona fede nell’esecuzione del contratto sia dal dovere extracontrattuale del neminem laedere».

Tuttavia – afferma la Corte – non è possibile trarre una regola rigida nella misura prospettata dal ricorrente (comunicazione con non meno di quindici giorni di anticipo), non potendosi escludere la “necessità di adattare i turni lavorativi con un certo grado di elasticità”.

Il ricorso è quindi comunque rigettato, visto che, ad avviso della Corte, la censura pretenderebbe una diversa e migliore ricostruzione dei fatti (preclusa al Supremo Collegio).

La pronuncia si allinea all’orientamento che afferma il diritto del lavoratore alla programmabilità del proprio tempo libero, da attuarsi attraverso la comunicazione preventiva, ed in un termine ragionevole, dei turni di lavoro. Ciò a prescindere dall’esistenza di una disposizione ad hoc e dalla tipologia di rapporto di lavoro, e senza alcuna distinzione tra lavoro part time e lavoro a tempo pieno (Cass., 21 maggio 2008, n. 12962, in LG, 2008, 11, p. 1147, con nota di Gazzetta; Trib. Milano, 16 luglio 2002 in D&L, 2003, 119, con nota di Schettini, che sottolinea che il risarcimento è dovuto pur in mancanza di prova del pregiudizio riportato, essendo quest’ultimo intrinseco alla incertezza sulla possibilità di fruire del tempo libero; contra si v. Trib. Milano, 22 agosto 2005, n. 3266 secondo cui i limiti al potere del datore di modificare l’orario lavorativo riguardano esclusivamente i contratti a tempo parziale).

Il diritto del lavoratore (part time o a tempo pieno) alla programmazione del proprio tempo è stato quindi in più occasioni riconosciuto dalla Suprema Corte.

Non si tratta tuttavia dell’unica occasione in cui la Cassazione ha affrontato il tema del “tempo sottratto” sotto il profilo della risarcibilità del danno non patrimoniale.

E’ stato infatti diverso l’approdo degli ermellini nella diversa questione della lesione del tempo libero, in una causa intentata da un avvocato contro il Ministero della Giustizia, che lamentava che i disservizi degli ufficiali giudiziari avessero causato una “perdita di tempo libero”, con necessità di lavorare nei giorni festivi e di riposo, per potere compensare il tempo perduto.

In quella occasione la Corte definì il “tempo libero” come «diritto immaginario che non è risarcibile quale danno non patrimoniale, poiché l’impiego del tempo a fini lavorativi o a fini diversi è rimesso all’esclusiva autodeterminazione della persona» (Cass. 4 dicembre 2012, n. 21725).

Attendiamo nel tempo i prossimi approdi.

Danilo Bellini, avvocato, Carrara

Visualizza il documento: la sentenza della Cassazione

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