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18 Nov 2025, Mar

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Era una di quelle notti in cui il reparto sembrava un alveare in piena attività. L’infermiera camminava veloce, i passi leggeri ma decisi, il viso segnato dalla stanchezza e dallo sforzo di dover correre da un paziente all’altro. Le luci soffuse e il silenzio rotto solo dal respiro lento di chi combatteva ancora con la malattia rendevano l’atmosfera quasi sacrale.

In una stanza all’angolo del corridoio, c’era una paziente anziana, il cui respiro rauco si faceva sempre più debole. Per lei, quella notte non era come le altre. Aveva un unico, piccolo desiderio: non morire da sola. Le sue mani tremavano mentre cercava la forza per chiedere un conforto umano che andasse oltre le cure e i farmaci.

Con voce flebile, chiamò l’infermiera. “Non lasciarmi sola, per favore… Ho paura.” La richiesta era semplice, ma carica di un bisogno profondo: la paura della solitudine nell’ultimo istante della vita. L’infermiera si fermò un attimo davanti alla porta, combattuta. Il reparto era pieno, i pazienti avevano tutti bisogno, e il tempo era un lusso che nessuno poteva permettersi.

Ma poi, guardando quegli occhi pieni di timore, l’infermiera sentì nascere dentro di sé una determinazione silenziosa. In quel momento capì che la sua presenza, anche se non fisica per tutta la notte, poteva essere sentita e percepita in altri modi. Prese un semplice guanto di lattice, lo riempì con dell’acqua calda e lo avvolse con delicatezza. Con quel gesto, posò il “calore” di una mano che non poteva più esserci direttamente, ma che aveva la forza di consolare.

La paziente afferrò quel calore, stringendo quel guanto come se fosse la mano di qualcuno che le teneva compagnia. Il suo viso, segnato dalla fatica e dalla sofferenza, si rilassò in un sorriso rassicurato. Sentì che non era più sola, che un filo invisibile di affetto la teneva stretta, mentre il respiro si faceva più lento e sereno.

L’infermiera tornò al suo giro per le stanze, con nel cuore un peso di dolcezza e tristezza al tempo stesso. Quel piccolo gesto di empatia era diventato un ponte invisibile tra la solitudine della morte e la calda umanità di chi assiste. Capì che nella sua professione, spesso fatta di corse e urgenze, erano quei momenti silenziosi a fare la differenza più grande.

Quella notte, la donna se ne andò con il cuore leggero, portando con sé la certezza di non essere stata lasciata sola. E l’infermiera, pur esausta, sentì rinascere dentro di sé la forza del suo lavoro: essere, sempre, la mano che consola, anche quando sembra invisibile.

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