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Il lamento del Manicomio di Voghera.

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La luna piena su Voghera.

Il vento ululava, non contro gli antichi platani scheletrici, ma tra le fessure cieche e le finestre infrante dell’ex Ospedale Psichiatrico di Voghera, in provincia di Pavia. Era la notte della luna piena, e il disco perlaceo nel cielo nero illuminava la facciata imponente dell’edificio abbandonato, proiettando ombre danzanti che sembravano mani artigliate. Un’auto si fermò bruscamente sulla strada sterrata che portava al cancello arrugginito.

All’interno, seduti sul sedile posteriore di un SUV nero, c’erano due ragazzi e una ragazza, voci trepidanti e volti illuminati dallo schermo di un cellulare che riprendeva tutto. Erano lì per le visualizzazioni, per il brivido, per la leggenda. Uno di loro, Marco, spense il motore. Il silenzio che seguì fu assordante, rotto solo dal battito irregolare dei loro cuori.

Poi, dal cuore nero dell’edificio, un suono. Non un grido singolo, ma un coro gutturale, un lamento prolungato che si innalzava, si intrecciava e poi si spegneva in un’eco agghiacciante. Era un suono che non apparteneva a questo mondo, eppure sembrava intriso di un dolore così profondamente umano da gelare il sangue. I ragazzi si guardarono, il pallore della luna che si rifletteva sui loro volti atterriti.

“Cosa… cosa diavolo era?” sussurrò Lara, stringendo il braccio di Marco. “È… è quello che dicono,” rispose Marco, la voce appena un soffio. “I pazienti. Quelli che non se ne sono mai andati.”

Il ritorno del Dottor Vitale.

Il Dottor Elio Vitale non credeva negli spettri. Era un uomo di scienza, un psichiatra forense rinomato, con una carriera costruita sull’analisi dei fatti, non delle superstizioni. Eppure, ogni volta che la sua auto percorreva la strada provinciale che lambiva l’imponente sagoma dell’ex manicomio di Voghera, un brivido freddo gli correva lungo la schiena. Aveva lavorato lì. Per quasi vent’anni, fino alla chiusura nel 1998, quell’edificio era stato il suo mondo, un luogo di sofferenza e, a volte, di piccole vittorie.

Ora, a cinquantotto anni, Elio era tornato a Pavia dopo anni passati a Roma. Il richiamo delle sue radici, la necessità di prendersi cura della vecchia madre malata, lo avevano riportato qui. Ma c’era qualcos’altro. Da mesi, le leggende sull’ospedale dismesso erano tornate a circolare, amplificate dai social media e dai curiosi che si avventuravano al suo interno. Ma non erano solo chiacchiere. Ex colleghi, infermieri e medici in pensione con cui Elio aveva mantenuto i contatti, parlavano sottovoce di spettri e, in particolare, del fantasma di un paziente suicida.

“Lo senti ancora, Elio,” aveva mormorato pochi giorni prima la signora Anna, la sua ex caposala, una donna dall’acciaio nelle vene e dal cuore gentile. “Il signor Bianchi. Non ha mai trovato pace. Lo cercava già in vita, la sua anima. E ora la cerca lì dentro.”

Giorgio Bianchi. Elio ricordava bene quel nome. Un uomo tormentato, ossessionato da visioni e da un senso di colpa paralizzante. Si era tolto la vita nel reparto più isolato, quello che chiamavano la “rotonda dei furiosi”, proprio l’anno prima della chiusura. La sua morte era stata un evento tragico, una macchia indelebile nella memoria di tutti coloro che avevano lavorato lì.

Ma i lamenti? Le urla? Elio aveva sempre creduto fossero il frutto dell’immaginazione, del vento, degli animali selvatici o, al massimo, di qualche “esploratore urbano” troppo fantasioso. Finché, la scorsa notte, mentre tornava a casa in tarda serata, aveva sentito. Un suono flebile all’inizio, poi più distinto, un eco di disperazione che gli aveva fatto drizzare i capelli. Non era il vento. Non erano animali. Era un suono che aveva conosciuto bene, troppo bene, negli anni trascorsi dietro quelle mura.

Era la voce del dolore umano.

E per la prima volta da anni, il Dottor Vitale non aveva una spiegazione logica. Quella notte, mentre la luna piena illuminava il suo salotto, Elio si era fatto una promessa. Avrebbe scoperto la verità. Per la scienza, per la sua sanità mentale e, forse, per la pace di chi era rimasto intrappolato in quel luogo maledetto. I lamenti e le urla provenivano dall’ex manicomio. E Elio, l’uomo che non credeva, era sul punto di credere.

I sussurri del passato.

La mattina seguente, Elio si alzò presto, nonostante una notte tormentata da sogni popolati da corridoi bui e grida sommesse. La sua mente scientifica cercava ancora una spiegazione razionale per ciò che aveva udito, ma una parte di lui, quella più recondita e istintiva, era già convinta di trovarsi di fronte a qualcosa che superava ogni logica.

La sua prima tappa fu la casa della signora Anna. L’ex caposala, una donna piccola ma energica, lo accolse con un sorriso stanco e un caffè forte. Le rughe intorno ai suoi occhi raccontavano storie di notti insonni e di un’esistenza dedicata agli altri.

“Sei venuto per questo, vero Elio?” disse Anna, indicando con un gesto vago verso Voghera. “Non ti ho mai visto così turbato, nemmeno ai tempi del Reparto H.”

Elio annuì. “Ho sentito, Anna. Stanotte. Non era il vento.” Anna abbassò lo sguardo, annuendo lentamente. “No, non è mai il vento, Dottore. Quella sofferenza non si spegne così facilmente. Ricordi il signor Bianchi? Era un uomo buono, ma la sua mente era un labirinto. Diceva sempre di essere perseguitato da ‘ombre’. E quando è morto… beh, non ha mai trovato pace.”

“Ma cosa intendeva quando diceva che cercava la sua anima?” chiese Elio, la mente da psichiatra che riprendeva il sopravvento. “Era una metafora per la sua malattia, o c’era qualcosa di più?” Anna sospirò. “Non lo so, Elio. Era molto religioso, a modo suo. Parlava di aver perso un pezzo di sé molto tempo prima, qualcosa che era rimasto bloccato in un ‘altro luogo’. E che solo trovandolo, avrebbe potuto finalmente morire in pace.” Anna si interruppe, gli occhi che brillavano di un’emozione contenuta. “Dopo la sua morte, in molti hanno sentito cose. Passi, sussurri, un pianto sommesso. Ma i lamenti e le urla… quelli sono diventati più forti con gli anni. E soprattutto, con la luna piena.”

Elio le raccontò della sua intenzione di tornare all’ospedale. Anna lo guardò con apprensione. “Stai attento, Elio. Quel posto è maledetto. E non solo dagli spiriti.” “Cosa intendi?” “Ci sono persone che ci vanno. Ragazzi, certo, per le bravate. Ma anche altri. Ombre che non vogliono essere viste. Ho sentito dire che ci sono stati degli incidenti, in passato. Cadute, vandalismi… ma anche cose più strane. Sparizioni di oggetti. Segni lasciati. Come se qualcuno ci vivesse, o lo usasse per… per scopi non troppo chiari.”

Elio percepì la punta di un iceberg. Il soprannaturale era terrificante, ma le attività umane clandestine erano spesso più pericolose. “Quali segni, Anna?” “Simboli strani, graffiti. Nelle aree più interne, quelle circolari, le ‘rotonde dei furiosi’. Dove tenevamo i pazienti più agitati. Lì, pare, i lamenti sono più forti. E lì… lì si è suicidato il signor Bianchi.”

Lasciando Anna, Elio decise di non affrontare l’ospedale da solo. Aveva bisogno di aiuto, o almeno di una copertura. Si ricordò di Martina Rossi, una giovane e brillante giornalista locale che aveva incontrato un paio di volte per articoli sul degrado del patrimonio storico pavese. Era ambiziosa, curiosa e non si tirava indietro di fronte a una storia scomoda. Un’alleata perfetta, e un testimone nel caso le cose si fossero messe male.

La chiamò. Martina rispose con la sua solita energia. “Dottor Vitale! A cosa devo il piacere?” “Martina, ho una storia per te. Riguarda l’ex manicomio di Voghera.” Ci fu un attimo di silenzio dall’altro capo del telefono. “Il manicomio? Quello delle leggende?” la sua voce era tinta di eccitazione. “Mi dica.” “Non sono leggende. Non tutte, almeno. Ho sentito delle cose. E ho motivi per credere che ci sia qualcosa di molto inquietante in quel posto. Non solo fantasmi, ma qualcosa di più… terreno. Voglio tornarci. Ma ho bisogno di qualcuno che mi accompagni. Qualcuno con la mente aperta e uno spirito d’iniziativa. E magari una buona macchina fotografica.”

Martina accettò senza esitazione. Erano una squadra insolita: il razionale psichiatra in pensione e la giovane, curiosa giornalista. Decisero di incontrarsi la sera successiva, quando la luna, sebbene non piena, avrebbe comunque offerto una luce sufficiente a navigare tra le rovine.

Nel frattempo, Elio fece una deviazione verso la Biblioteca Universitaria di Pavia. Aveva in mente un altro “luogo dismesso” di cui Anna aveva accennato: l’ex ospedale San Matteo. Fino al 1932, aveva ospitato l’ospedale cittadino. E sebbene fosse stato per lo più riconvertito, una parte di esso giaceva ancora abbandonata. Si chiese se ci fosse un qualche archivio, un qualche vecchio registro dei pazienti o del personale che potesse rivelare un collegamento inaspettato tra le due strutture. Forse, il “pezzo d’anima” che Giorgio Bianchi aveva perso non era solo una metafora della sua malattia, ma qualcosa di tangibile, un segreto legato a un passato più profondo e oscuro che coinvolgeva entrambi gli ospedali.

Mentre sfogliava antichi tomi polverosi e fascicoli ingialliti, una data e un nome gli balzarono all’occhio: “Caso Rossi, Anno 1930. Trasferimento coatto dall’Ospedale San Matteo (reparto neurologico) all’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Voghera. Diagnosi: Delirio di persecuzione e catalessi. Nota: La paziente sosteneva di essere in possesso di una ‘verità scomoda’ e di aver nascosto un ‘oggetto di grande valore’ prima del suo ricovero.”

Elio sentì un nodo allo stomaco. “Rossi.” Lo stesso cognome di Martina. Una coincidenza? O il primo filo di una ragnatela molto più complessa e pericolosa?

Nelle viscere della “Rotonda dei Furiosi”.

La notte calò su Voghera, avvolgendo l’ex manicomio in un velo di oscurità e presagi. Elio e Martina si incontrarono al cancello arrugginito, attrezzati con torce potenti e un drone per le riprese aeree. Martina, con la sua attrezzatura professionale, era un fascio di nervi tesi ma eccitati. Elio, invece, sentiva il peso di ogni passo, ogni ombra, come se il passato si aggrappasse alle sue membra.

Il cancello cigolò, cedendo sotto una spinta decisa. L’aria all’interno era densa, pesante di polvere e di un odore dolciastro e stantio, come di morte antica. Mentre si addentravano nei corridoi labirintici, le torce tagliavano le tenebre, rivelando letti a castello rovesciati, cartelle cliniche sparse e scritte deliranti sui muri scrostati. Ogni ombra sembrava muoversi, ogni scricchiolio era un sussurro.

“Sembra che il tempo si sia fermato qui,” mormorò Martina, la voce appena un soffio, mentre il drone si librava silenziosamente sopra di loro, inviando immagini sul suo tablet.

Elio la guidò verso la “rotonda dei furiosi”, l’area circolare destinata ai pazienti più difficili. L’atmosfera si fece ancora più opprimente. Qui, le urla erano incise nelle pareti, l’angoscia permeava l’aria. Fu qui che Giorgio Bianchi si era suicidato. E fu qui che Elio aveva percepito il lamento più forte la notte precedente.

Mentre si avvicinavano al centro della rotonda, un suono si fece strada nel silenzio. Non un lamento singolo, ma un coro debole, eppure inconfondibile, di voci che si sovrapponevano, mescolando gemiti, risate isteriche e parole incomprensibili. Elio sentì i capelli drizzarsi sulla nuca. Erano lì. Erano loro.

All’improvviso, il drone di Martina si bloccò, le eliche smisero di girare e precipitò a terra con un tonfo sordo, spegnendosi. Un’onda di freddo gelò l’aria.

“Cosa succede?” sussurrò Martina, stringendo il braccio di Elio.

Fu in quel momento che un’ombra scura si mosse nell’angolo più profondo della rotonda. Non era uno spirito, non del tutto. Era una figura umana, alta e magra, avvolta in un lungo cappotto scuro, che si muoveva con una lentezza innaturale. Non faceva rumore.

“Chi c’è lì?” urlò Elio, puntando la torce. La luce rivelò non una, ma diverse figure. Sembrava un gruppo di persone, i volti coperti da cappucci e sciarpe che li rendevano irriconoscibili. Si muovevano in modo coordinato, come se fossero impegnati in un qualche rituale. E da loro provenivano i lamenti.

Non erano fantasmi, non del tutto. Queste persone stavano riproducendo i suoni del manicomio. Ma perché?

Una delle figure si voltò, la torcia di Elio illuminò per un istante un simbolo dipinto sul muro dietro di loro: una spirale concentrica che sembrava un occhio, identica a quella trovata negli archivi del San Matteo, legata al “Caso Rossi”.

Un’altra figura si fece avanti, tirando giù il cappuccio. Era una donna, il volto tirato e gli occhi infossati, ma riconoscibile. Era una delle ex infermiere del manicomio, una di quelle che avevano testimoniato degli “spettri”. La sua espressione era un misto di fanatismo e disperazione.

“Dottor Vitale,” la sua voce era un sussurro rauco. “Siete venuti a vedere. L’anima non si trova, Dottore. Non si trova senza la giusta purificazione.”

Martina, nel frattempo, aveva recuperato il tablet del drone. Nonostante il crash, le ultime immagini erano state salvate. Scorrendo, vide il punto di ripresa finale: una stretta fessura nel muro dove l’ombra si era mossa, e oltre, una stanza segreta, mai registrata sulle planimetrie. E al centro della stanza, un’antica cassetta di legno, incisa con lo stesso simbolo della spirale.

“Elio! Guarda!”

Mentre la figura dell’infermiera si avvicinava, spiegando farneticando di “anime bloccate” e “purificazioni necessarie”, Elio capì. Non era solo paranormale, né solo umano. Era una fusione orribile. Gli spiriti, inclusa l’anima tormentata di Giorgio Bianchi, erano reali. Ma il loro lamento, la loro sofferenza, era stata catturata e amplificata da un gruppo di persone, ex membri del personale e forse altri, che credevano di poterli “liberare” o “purificare” attraverso macabri rituali. Erano fanatici, ossessionati dal dolore del luogo, che alimentavano e riproducevano l’orrore. I lamenti e le urla che sentivano non erano solo gli echi del passato, ma anche la voce del presente, di un orrore ricreato.

E il “Caso Rossi” del San Matteo? L’oggetto di grande valore? Non era un tesoro, ma una reliquia di sofferenza, un manufatto che, forse, la paziente aveva usato per “catturare” parte della sua “verità scomoda” o un pezzo della sua stessa psiche, temendo che venisse perduta nel manicomio. Quella cassetta, ora nella stanza segreta, doveva contenere il segreto, la chiave per comprendere non solo la follia dei vivi, ma anche la natura dell’anima perduta di Bianchi.

L’anima inquieta.

Elio e Martina riuscirono a scappare, portando con sé non solo le prove dei rituali ma anche la consapevolezza di una verità più complessa e inquietante di quanto avessero mai immaginato. La polizia, allertata dalle loro prove, intervenne, trovando le figure incappucciate e le loro macabre installazioni sonore. Ma ciò che le torce delle forze dell’ordine rivelarono nella stanza segreta non fu una cassetta di valore, ma un’antica scatola sigillata, intrisa di un’energia fredda e inesplicabile. Al suo interno, frammenti di scrittura, simboli antichi e un pezzo di tessuto che sembrava un lembo di una camicia da notte manicomiale, recante un nome: “Rossi”.

L’ex manicomio di Voghera fu finalmente sigillato in modo permanente, ma i lamenti non smisero mai del tutto. La polizia li attribuì al vento, alle strutture fatiscenti, e ai ricordi inquietanti del luogo. Ma Elio e Martina sapevano la verità.

I lamenti e le urla provenivano da più fonti. Erano gli spiriti tormentati che non avevano mai trovato pace. Erano le manifestazioni sonore create da un culto ossessionato che cercava di manipolare quelle energie. E, forse, erano anche l’eco di qualcosa di più antico e radicato, portato lì decenni prima dalla paziente Rossi, un frammento della sua anima o della sua “verità” che aveva trovato dimora nel luogo della sofferenza, legando per sempre i destini dei due manicomi e le anime di chi vi aveva dimorato.

Giorgio Bianchi, l’uomo che cercava la sua anima, forse non l’aveva mai persa, ma era rimasta imprigionata in quel luogo, amplificata e usata, in attesa di un’autentica liberazione che la scienza non poteva offrire e che la follia umana aveva solo distorto. Elio, lo scienziato razionale, aveva incontrato il limite della sua logica, e Martina, la giornalista, aveva scoperto che le storie più vere erano spesso le più inimmaginabili.

E la luna piena su Voghera, ogni mese, continua a illuminare le rotonde cieche, portando con sé non solo l’ombra delle mura, ma anche i lamenti inestinguibili di un passato che rifiuta di morire e di un presente che ha imparato a imitarne la disperazione.

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  • AngeloRikyDelVecchio-1-copia Il lamento del Manicomio di Voghera.

    Angelo Riky Del Vecchio è autore di oltre 20.000 articoli scritti in oltre 30 anni di carriera giornalistica. E' Infermiere Magistrale, Scrittore, Giornalista e Formatore. Ha diretto e fondato il quotidiano sanitario Nurse24.it e oggi dirige il quotidiano AssoCareNews.it. Ha la passione per la scrittura, la lettura e la formazione.

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