Alzheimer: la nuova era della diagnosi e della terapia.
Dalla ricerca di laboratorio agli anticorpi che rallentano la malattia.
C’è un momento, spesso silenzioso, in cui una persona inizia a dimenticare. Un nome, una data, un percorso familiare. E da lì, a poco a poco, la vita inizia a sfilacciarsi. L’Alzheimer è una delle patologie più devastanti del nostro tempo: compromette la memoria, l’autonomia e l’identità. Ma oggi, finalmente, la ricerca scientifica apre spiragli concreti nella diagnosi precoce e nel trattamento.
Una malattia che segna il tempo
Sono oltre 55 milioni le persone nel mondo che convivono con una forma di demenza. In Italia, si stimano oltre un milione di casi, con una prevalenza crescente dovuta all’invecchiamento della popolazione. Ma l’Alzheimer non è solo un problema individuale o familiare: è un’emergenza sanitaria globale, con costi umani, sociali ed economici incalcolabili.
Cosa accade nel cervello?
Nel cervello di chi è affetto da Alzheimer si verificano alterazioni biologiche profonde: si formano accumuli anomali di proteine – le placche di beta-amiloide all’esterno dei neuroni e i grovigli della proteina tau all’interno – che danneggiano le cellule nervose e ne causano la morte. Questo processo, lento ma inesorabile, avviene spesso anni prima che i primi sintomi si manifestino. Ed è proprio in questa finestra silenziosa che oggi si concentra l’attenzione dei ricercatori: intervenire il prima possibile, quando i neuroni sono ancora in grado di reagire.
Dalla puntura lombare al prelievo di sangue: la diagnosi si fa più semplice
Fino a pochi anni fa, diagnosticare l’Alzheimer in fase iniziale significava sottoporsi a esami complessi e spesso invasivi, come l’analisi del liquido cerebrospinale tramite puntura lombare o la PET cerebrale con traccianti specifici. Oggi, però, la scienza ha fatto un salto importante: sono disponibili test del sangue capaci di rilevare le alterazioni nei livelli delle proteine beta-amiloide e tau, aprendo a scenari di diagnosi precoce più accessibili, meno invasivi e meno costosi. Non solo: questi esami possono essere ripetuti nel tempo per monitorare la progressione della malattia e valutare l’efficacia dei trattamenti.
Lecanemab: il primo anticorpo monoclonale approvato in Europa
Nel novembre 2024, l’Agenzia Europea per i Medicinali ha segnato una tappa storica approvando Lecanemab, un anticorpo monoclonale progettato per intervenire nei primissimi stadi della malattia. Il farmaco agisce “ripulendo” il cervello dalla proteina beta-amiloide e ha dimostrato di rallentare la progressione del deterioramento cognitivo fino al 30%. Un risultato che, per i pazienti e le loro famiglie, può significare mesi – se non anni – di maggiore autonomia e qualità di vita.
Che cosa sono gli anticorpi monoclonali? |
Gli anticorpi monoclonali sono proteine create in laboratorio per agire su bersagli specifici nel corpo. Nel caso dell’Alzheimer, si legano alla proteina beta-amiloide per eliminarla dal cervello. Sono già usati contro tumori e malattie autoimmuni e ora stanno cambiando anche la gestione delle malattie neurodegenerative. |
Chi può beneficiarne e quali sono le precauzioni
Il trattamento con Lecanemab non è per tutti: è pensato per chi si trova in fase precoce e con diagnosi confermata tramite biomarcatori. Inoltre, la terapia va monitorata attentamente perché può comportare effetti collaterali, tra cui piccoli sanguinamenti o gonfiori cerebrali visibili con la risonanza magnetica. Per questo è importante un’attenta selezione dei pazienti e un follow-up costante.
Il futuro si chiama Donanemab
Accanto a Lecanemab, un secondo anticorpo monoclonale – Donanemab – è in fase avanzata di sperimentazione. Con un meccanismo simile ma potenzialmente un regime terapeutico più pratico, potrebbe presto ampliare l’arsenale contro l’Alzheimer. Si tratta di trattamenti che non guariscono, ma che modificano il corso della malattia, spostando il paradigma da una gestione cronica e passiva a una medicina proattiva e personalizzata.
La sfida è ancora aperta, ma il tempo è dalla nostra parte
Per troppo tempo l’Alzheimer è stato un destino ineluttabile. Oggi, grazie alla ricerca, si affaccia la possibilità concreta di intervenire in modo tempestivo e mirato. Ma per rendere queste terapie una realtà diffusa servono investimenti, formazione del personale sanitario, informazione ai cittadini e percorsi diagnostici rapidi ed efficaci. La battaglia è appena iniziata, ma per la prima volta, le armi ci sono.
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