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Dipendenza da alcol raccontata in una tesi: il sapore amaro del malto!

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La relazione più dura: tra persona dipendente e sostanza da cui dipende

Il quotidiano sanitario nazionale Assocarenews.it continua la sua campagna di diffusione delle migliori tesi in infermieristica d’Italia. Questo non soltanto per gratificare il primo vero atto d’intellettualità professionale dei giovani infermieri ma anche per favorire il circolo di idee e spunti di riflessione che queste tesi ci regalano, allontanandoci dall’idea di infermiere come protagonista nell’esecuzione di meri atti assistenziali e riponderando i processi di cura nel loro insieme.

Anche affrontando, come in questo caso, tematiche peculiari e interessanti che troppo spesso rimangono però ai margini dell’interesse della massa.

La tesi “Il sapore amaro del malto” rappresenta uno studio qualitativo molto brillante che si inoltra nel mondo della dipendenza da alcol e ne osserva le dinamiche relazionali non soltanto a livello interpersonale ma anche nel suo aspetto più crudo: il rapporto tra il dipendente e la sostanza da cui dipende. Il lavoro ha visto come relatrice la dottoressa Lucia Gigli, specialista clinica e formatrice presso l’Università degli studi di Firenze.

TITOLO: Il sapore amaro del malto 

FENOMENO INDAGATO E RAZIONALE: Sono da sempre stato molto interessato al tema “alcol” e ai problemi che esso, sia a livello fisico che psicologico, provoca in coloro che lo assumono. L’idea di questa ricerca è nata durante la mia partecipazione al “Corso di sensibilizzazione all’approccio ecologico-sociale ai problemi alcol-correlati e complessi (metodo Hudolin)”, tenutosi a Careggi. Qui, ho avuto la possibilità di approfondire varie tematiche riguardanti l’utilizzo di alcol o le problematiche che esso può provocare. Questa ricerca di tipo qualitativo è volta proprio alla comprensione della relazione che sussiste fra stili di vita del singolo individuo (o della comunità) e problemi alcol-correlati. La ricerca mira, inoltre, all’evidenziazione di tutti quegli aspetti comuni che portano, col tempo, alla costituzione di uno stile di vita malsano e, quindi, ad un fattore di rischio per la produzione di problemi alcol-correlati.

PERCORSO DELL’INDAGINE/REVISIONE: L’indagine si basa sull’analisi di 48 elaborati, scritti da alcuni partecipanti durante il corso sulla metodologia Hudolin. L’analisi è stata possibile grazie all’associazione fra l’utilizzo di una serie di strumenti digitali (software di scansione digitale, programma di riconoscimento ottico dei caratteri OCR, software digitale di analisi lessicale TextStat®) e una lettura attenta e manuale di ciascun elaborato.

PRINCIPALI RISULTATI DI INTERESSE INFERMIERISTICO E CONCLUSIONI: La ricerca ha avuto inizio con l’obiettivo principale di identificare una relazione fra stili di vita e consumo di alcolici, evidenziando, quindi, tutti quegli aspetti comuni che possono portare alla costituzione di uno stile di vita malsano. I risultati di questa indagine, tuttavia, non si limitano a ciò che mi sono preposto all’inizio della stessa, ma si estendono e vanno a toccare argomenti e temi particolarmente interessanti e, a mio parere, estremamente innovativi da un punto di vista sia sociale che di assistenza alla persona con gravi problemi alcol-correlati. I risultati sono i seguenti:

1. Gli alcolici, molto spesso, vengono assunti come rimedio per la tristezza o per la negatività di una certa situazione, al fine di raggiungere la spensieratezza o, quanto meno, alleviare il dolore del momento.

2. L’alcol e il suo utilizzo sono strettamente correlati alla cultura tradizionale (popolare), ai costumi di un certo luogo, agli stili di vita a cui le persone sono abituate e/o alla moda del momento.

3. Risulta estremamente difficile distinguere con precisione l’uso di una sostanza dal suo “abuso”; ugualmente, è necessario separarsi dalle tipiche espressioni di “bere moderato” o “bere responsabile”, perché fuorvianti.

4. Ciascuno di noi possiede un problema alcol correlato: nessuno può dirsi esonerato. È necessario, dunque, abbandonare i vecchi termini di “alcolista” o “alcolizzato” e di tradurli in “persone con gravi problemi alcol-correlati”.

5. La “dipendenza” da alcolici non indica una mera patologia fisica, ma un complesso quadro fisico, emotivo, psicologico e relazionale, strettamente correlato alle esperienze di vita e alla storia della persona.

6. Esiste una possibilità di cambiamento e di trasformazione.

Di seguito l’intervista all’autore della Tesi

 

Come presenteresti il cuore della tua tesi?

La mia tesi vuole principalmente mirare alla comprensione di tutta una serie di problematiche e questioni (talvolta sottintese, talvolta irrisolte) riguardo ad un argomento che viene spesso sottovalutato: l’alcol e le sue infinite relazioni.

Ciascuno di noi ha sentito parlare, direttamente o indirettamente, delle problematiche relative al consumo di questa sostanza; molti conosceranno, quindi, le complicazioni e le conseguenze che l’utilizzo smodato di questa bevanda possono avere sull’organismo umano e, di conseguenza, sui rapporti interpersonali e, più in generale, sulla società in cui viviamo.

Il cuore della tesi è caratterizzato da 6 principali punti, a mio parere cruciali:

Gli alcolici, molto spesso, vengono assunti come rimedio per la tristezza o per la negatività di una certa situazione, al fine di raggiungere la spensieratezza o, quanto meno, alleviare il dolore del momento.

È ormai oggi comune il pensiero secondo cui la gran parte delle persone con gravi problemi alcol correlati abbia cominciato a bere a causa di un problema, comparso nella propria vita, a cui magari non esisteva una soluzione immediata. Non per nulla, infatti, nel detto collettivo troviamo la tipica espressione del “bevo per dimenticare”. È risaputo come l’alcol abbia la capacità di far girare la testa, di euforizzare la persona e di permetterle di abbandonare, almeno momentaneamente, un determinato pensiero o ricordo.

Ricordiamoci, però, come il malto, nonostante sia di per sé dolce, non potrà mai ingentilire l’amaro della vita: la soluzione, quindi, non è “bere per dimenticare”; bisogna ricordare come l’alcol sia una sostanza che per guarirci, ci avvelena.

L’alcol e il suo utilizzo sono strettamente correlati alla cultura tradizionale (popolare), ai costumi di un certo luogo, agli stili di vita a cui le persone sono abituate e/o alla moda del momento.

Da una parte, quindi, possiamo trovare la relazione fra uso di alcol e tradizione di un certo luogo. Molto spesso, assuefatti dalla quotidianità della nostra vita, perdiamo la consapevolezza delle nostre azioni e di quello che ci circonda; se non ci fermiamo a ragionare e non proviamo ad uscire dagli schemi a cui siamo abituati, difficilmente diveniamo capaci di comprendere la vera natura di ciò che facciamo e della ragione per cui siamo portati a farlo. Ogni paese possiede una propria storia e un proprio collegamento culturale all’ambiente in cui sorge. L’abitudine di vita viene tramandata di padre in figlio, di generazione in generazione: è in questo modo che un certo comportamento assunto da un soggetto si presenta quasi come innato e non come più ragionato; colui che fin da piccolo viene abituato ad agire in una determinata maniera, la accetterà come giusta e la farà diventare parte di sé, quasi come se fosse derivante dal suo istinto naturale e non da un “insegnamento parentale”. L’ambiente rurale, legato alla cultura dei vigneti e alla produzione di un vino di qualità, ha permesso la formazione di uno stile di vita malsano che, tuttavia, viene nascosto agli occhi delle persone, a causa della mentalità comune secondo cui un prodotto naturale, che proviene dalla stessa terra dei propri antenati, non può che far bene.

Come seconda relazione, invece, troviamo l’alcol e la moda, soprattutto relativamente alla popolazione giovanile. La cultura e gli stili di vita derivanti dalla tradizione non influenzano la totalità della popolazione, ma si concentrano soprattutto sui soggetti più “anziani”, ossia su coloro che sono, in qualche modo, legati in maniera più ferrea alla storia di un luogo o alle abitudini dei predecessori.

Se andiamo, infatti, ad analizzare la popolazione giovanile, le motivazioni per cui un individuo tende a bere non risiedono più nelle antiche tradizioni parentali, ma derivano prettamente da ciò che viene dettato ogni giorno dalla moda. Convincere un adolescente a non fare utilizzo di alcol non è semplice, soprattutto se a remare contro si coalizzano moda e mercato. La diffusione della moda dell’happy hour (ora felice, espressione di marketing anglosassone che indica un periodo di tempo nel quale un pubblico esercizio, come può essere un ristorante o un bar, offre sconti su bevande alcoliche quali birra, vino, cocktails e shottini di superalcolici), ha incrementato ancora di più lo sviluppo di un più semplice accesso alle bevande da parte dei più giovani.

Fenomeno trasversale sono invece diventati i nuovi “ready to drink”, cioè le nuove bevande frutto della mescolanza fra succhi di frutta e modiche quantità di alcol, che piacciono sempre di più ai giovani italiani, anche a quelli poco propensi al consumo di sostanze alcoliche. Il lancio di questo nuovo prodotto (alcolpops) ha invogliato a bere anche chi non era abituato a farlo. Chi non beve, molte volte, è considerato uno che non trasgredisce e viene ben presto emarginato dal gruppo. A tutto questo si aggiunge, inoltre, la pubblicità: colui che beve è ritratto sempre attraverso un’immagine di bellezza, trasgressione e di moda; e questo piace molto ai giovani. Ma la moda, in questo modo, inculca nei ragazzi la pericolosa idea secondo la quale “se non bevi non sei all’altezza” e induce la formazione di uno stile di vita completamente scorretto e basato su atteggiamenti rischiosi: la moda, così facendo, uccide.

Risulta estremamente difficile distinguere con precisione l’uso di una sostanza dal suo “abuso”; ugualmente, è necessario separarsi dalle tipiche espressioni di “bere moderato” o “bere responsabile”, perché fuorvianti.

Una grande quantità di giovani è incline all’assunzione di un’elevata concentrazione di alcol limitata ai fine settimana; altri, invece, preferiscono bere “moderatamente” ogni sera; altri ancora, inoltre, bevono magari solo vino e unicamente durante i pasti. Ciascuno di noi, infatti, possiede una propria abitudine nei confronti dell’assunzione di alcolici.

Siamo abituati a pensare al nostro modello di vita come migliore di quello degli altri o come perfettamente sano. Colui che beve nei fine settimana, ma non tocca alcol durante il resto dei giorni, si comporta agli occhi di tutti secondo un atteggiamento socialmente riconosciuto come normale: il weekend si beve per divertirsi, per festeggiare e per far girare la testa.

Dunque, questo comportamento non risulta essere un abuso, ma un semplice utilizzo della sostanza. L’abuso compare, invece, nel momento in cui, colui che non sa limitarsi, esagera: abusa colui che supera la soglia. Dovremmo cominciare a ragionare sulle parole che utilizziamo. Abusa colui che supera la soglia. Cosa significa questa affermazione? Chi definisce la soglia, oltre la quale un utilizzo “consapevole” di una sostanza diviene, invece, un uso irresponsabile e, dunque, un abuso? Non per niente ho voluto sottolineare due termini: moderatamente e consapevole. Quante persone si definiscono dei “bevitori responsabili” e quante dei “bevitori moderati”?

È ormai radicata l’ideologia secondo la quale possiamo bere, ma in maniera responsabile. Viviamo in un tempo in cui esistono dei margini netti, che distinguono i bevitori normali da coloro che esagerano e che, quindi, hanno dei problemi col bere: i cosiddetti “alcolizzati” o “alcolisti”. È, dunque, necessario cominciare a trasformare il modo in cui guardiamo alla realtà: non esiste un limite netto, un confine preciso, che separa un bere responsabile da un bere irresponsabile o che divide un bere moderato da un bere eccessivo.

E con questo discorso voglio legarmi alla sfera di risultati successiva:

Ciascuno di noi possiede un problema alcol correlato: nessuno può dirsi esonerato. È necessario, dunque, abbandonare i vecchi termini di “alcolista” o “alcolizzato” e di tradurli in “persone con gravi problemi alcol-correlati”.

Quante volte ci siamo fermati a pensare e a ragionare sui propri stili di vita o sulle proprie abitudini? Quante volte, invece, siamo stati capaci di puntare il dito contro comportamenti apparentemente erronei nei confronti di altre persone?

È ormai comune e ampiamente condivisa l’abitudine di criticare gli altri, analizzando le loro situazioni da un punto di vista prettamente personale e soggettivo; l’idea che sta alla base di questa condizione è dettata dal pensiero secondo cui le proprie abitudini siano le uniche corrette e, di conseguenza, le uniche da non giudicare.

Come già detto in precedenza, a causa della pubblicità o della moda del momento, una serie di comportamenti oggettivamente rischiosi e malsani risultano essere socialmente accettati, mentre altri risultano apparentemente criticati e condannati dal pubblico.

Si è creata, oggi, una mentalità pericolosa, che tende a stigmatizzare alcuni comportamenti e, di conseguenza, alcune categorie di soggetti. Come già ampiamente detto, la società condanna e marchia coloro che possiedono gravi problemi alcol correlati, definendoli “alcolizzati” o “alcolisti”; gli individui che, invece, limitano il bere unicamente al fine settimana, vengono definiti normali e socialmente accettati: è, infatti, la moda stessa a dettare queste leggi. È per questo motivo che bisogna stare estremamente attenti all’utilizzo delle parole e al contesto in cui esse vengono inserite; l’ideologia secondo cui concentrare tutto il bere nei weekends sia più salutare del bere durante l’intera settimana e non ponga a rischio la persona, è enormemente pericolosa e tende ad offuscare la realtà dei fatti: tutti quanti siamo rischio di problemi alcol correlati. Non esiste una distinzione netta fra alcolizzati e non alcolizzati, fra uso e abuso, fra bere moderato e bere eccessivo o fra bere responsabile o bere irresponsabile: ciascuno di noi è a rischio di avere un problema alcol-correlato. Nessuno rimane esterno a questa rete, ma anche coloro che non bevono o non hanno rapporti stretti con sostanze alcoliche risultano essere a rischio di incorrere comunque in problemi alcol-correlati.

Questa nuova concezione del rischio si presenta come un punto di vista totalmente anomalo ed estraneo al pensiero comune e alle modalità con cui siamo abituati a guardare alla vita oggi. Credo, però, che sia necessario cominciare ad osservare la realtà con occhi diversi. È proprio questa la base del discorso e il nucleo del pensiero: la società non cambierà mai fino a che tutti non ci sentiamo parte di un qualcosa di unico, che potrà trasformarsi solo se ciascuno di noi assume le proprie responsabilità nei confronti dell’alcol. È semplice, infatti, puntare il dito contro qualcuno che manifesta apertamente i propri problemi alcol-correlati; risulta, invece, molto più complicato pensare che anche noi, in prima persona, possiamo incorrere negli stessi problemi. Finché questo pensiero non verrà accettato, il mondo continuerà a ghettizzare e stigmatizzare e non vedremo mai un futuro di cambiamento.

La “dipendenza” da alcolici non indica una mera patologia fisica, ma un complesso quadro fisico, emotivo, psicologico e relazionale, strettamente correlato alle esperienze di vita e alla storia della persona.

Siamo abituati a considerare colui che ha seri problemi alcol correlati come una persona malata, un soggetto che necessita di cure farmacologiche perché, per qualche motivo, non possiede le capacità di far fronte ad una certa situazione.

Viviamo in un mondo prettamente pragmatico e razionale, ma eccessivamente medico-centrico: oggi esiste (o, meglio, cerchiamo di trovare) una risposta biomedica ad ogni domanda e, di conseguenza, una soluzione farmacologica ad ogni problema umano.

Ogni “deviazione” o “complicazione” viene indagata attraverso la biochimica e l’obiettivo è sempre quello di comprendere la natura chimico-fisica che sta alla base di un determinato comportamento.

Come in altri campi, anche nel caso dell’alcol la medicina ci insegna come la “dipendenza” sia una questione unicamente neurologica e dipenda strettamente da complicati processi fisio-patologici a livello cerebrale.

Questo atteggiamento, a mio parere, risulta necessario e anche molto affascinante, al fine di comprendere i fondamenti fisiologici, che stanno alla base della formazione di una grande varietà di comportamenti umani. Un individuo, tuttavia, è molto più di una semplice macchina, i cui componenti possono danneggiarsi e necessitano, dunque, di riparazione. Una persona rappresenta un qualcosa di estremamente più complicato di ciò che può essere compreso razionalmente e sulla base di semplici processi fisiologici.

Se cambiassimo punto di vista e non analizzassimo il problema dell’alcol con occhi prettamente medici, potremmo accorgerci che, dietro alla bevanda, esiste una persona, con una propria storia e delle proprie esperienze di vita. L’approccio medico non risulta errato, ma povero ed incompleto, poiché tralascia completamente la visione olistica dell’individuo, tendendo a focalizzarsi, invece, solo sulla porzione fisiopatologica legata all’assunzione di alcol. Il campo di battaglia non è il bicchiere di vino, ma la persona: dobbiamo cambiare modo di guardare alle cose; il problema non sta nell’alcol, ma nella persona che lo assume. Il campo di battaglia, quindi, non deve essere più la bevanda in sé, ma la storia che la persona porta dentro. È necessario indagare la storia del soggetto, le esperienze, le emozioni che ha provato e le relazioni che lo rendono felice o triste.

Il farmaco in sé non è inutile: è dimostrato, infatti, che determinate sostanze possono essere realmente d’aiuto alla persona che cerca di ridurre l’assuefazione da alcolici; tuttavia, come già detto, oggi tendiamo a pensare che basti una pasticca per curare un “alcolizzato”. E, soprattutto, questa visione della realtà ci induce a considerare i soggetti con gravi problemi alcol correlati come dei malati a tutti gli effetti, bisognosi di cure mediche specialistiche.

È necessaria, invece, una concezione olistica, che ci permetta di parlare con la persona, di comprenderla, di capirne gli atteggiamenti e i comportamenti che la hanno portata ad agire in una determinata maniera o che risultano essere la causa dei suoi problemi.

Esiste una possibilità di cambiamento e di trasformazione.

Abbiamo, infatti, parlato di come l’alcol sia strettamente correlato alla cultura, alle tradizioni, al luogo in cui una persona nasce e matura o alla moda del momento; abbiamo, poi, introdotto il concetto di “alcol come compagno di vita”: la persona triste, combattuta, depressa tende a trovare la risoluzione momentanea ai propri problemi attraverso l’assunzione di alcolici, che la “aiutano a dimenticare”. Abbiamo, inoltre, scoperto come tutti noi siamo a rischio di problemi alcol-correlati, che non esistono differenze nette fra “alcolisti” e “bevitori responsabili”, che queste parole risultano estremamente vuote e stigmatizzanti e che, dunque, è necessario abolirle a favore di una suddivisione razionale del rischio, correlato ad assunzione di alcolici, in basso, medio e grave. La domanda che ne consegue, dunque, sorge quasi spontanea: esiste una possibilità di cambiamento? È possibile trasformare una propria abitudine di vita? Cambiare fa sempre un po’ paura: le persone temono ciò che non conoscono e tendono a rifugiarsi nella quotidianità degli eventi. Inoltre, colui che è ormai abituato a conseguire un certo stile di vita fin da piccolo, sarà difficilmente propenso a trasformarlo o a mutarlo. Tuttavia, sempre secondo gli autori, sembra esistere davvero una possibilità di cambiamento. E questo non è immediato, ma deve nascere dal profondo della persona; il primo passo, infatti, coincide esattamente con la comprensione della reale necessità di cambiare. Fino a che il soggetto non percepisce nemmeno l’esigenza di trasformare sé stesso, non esiste possibilità di cambiamento. La trasformazione è olistica e non incentrata unicamente sul problema del bere perché, come già detto, l’assunzione di alcolici è più una conseguenza che una causa: ciò su cui dobbiamo agire è la persona e non l’alcol. E, dal cambiamento del singolo, col tempo potremo raggiungere una modificazione della società stessa, attraverso l’esempio che l’individuo in sé può dare agli altri. Se io posso cambiare e voi potete cambiare, allora tutto il mondo può cambiare.

 

La tua tesi parla inerentemente alla dipendenza da alcool, caratteristica assistenziale ma anche criticità sociale. Cosa ti ha spinto a parlare di un argomento che porta l’infermiere fuori dal solito contesto di reparto?

Come già detto nella risposta alla prima domanda, siamo oggi inclini a considerare colui che ha una “dipendenza” da alcol come un mero malato fisico, che presenta precisi segni e sintomi, determinati da complicazioni dirette della sostanza sull’organismo. Purtroppo, siamo abituati a fermarci a questo, tralasciando completamente (o quasi) la visione olistica del soggetto in questione.

Colui che beve così tanto da giungere alla produzione di gravi problemi organici (patologie da consumo di alcol) non deve essere semplicemente osservato nella sua acuzie (cura diretta unicamente alla risoluzione della complicanza a livello di organo), ma l’analisi delle problematiche deve essere necessariamente estesa ad un livello superiore, più ampio, che prenda in considerazione il “perché” del nascere di queste complicazioni e il “come” l’individuo sia arrivato a tanto. La storia del soggetto va indagata, le sue esperienze di vita sono la base da cui partire per aiutare realmente la persona. Diviene, quindi, necessario affiancare alla medicina tradizionale anche una medicina di ascolto; ascolto che deve essere attivo, empatico, professionale e partecipe: in questo modo sarà possibile comprendere quali siano le reali motivazioni che hanno condotto il soggetto a rifugiarsi nell’alcol e. in questo modo, agiremo a livello radicale, cercando di collaborare col paziente al fine di eradicare il problema direttamente alla base.

In questo contesto, credo che l’infermiere possa essere una figura estremamente importante e di vitale importanza; sarà proprio lui, infatti, ad interagire col paziente, attraverso un ascolto attivo e partecipato, che dia un feedback positivo e che miri ad aiutare l’assistito nel vero senso della parola.

L’infermiere è colui che detiene la possibilità di divenire una figura amica e di sollievo per la persona e di identificarsi come colei con cui confidarsi e su cui appoggiarsi nei momenti bui.

In questo modo, non si parla solo di infermiere di reparto, ma di figura infermieristica a livello più ampio: l’infermiere diventa quasi un mediatore fra paziente e medico.

 

Quale è stata la cosa che più ti ha colpito del contatto e della relazione con persone con storia di dipendenza?
La cosa che più mi ha colpito del contatto e della relazione con persone con storia di dipendenza è sicuramente stata la semplicità e l’umiltà attraverso le quali sono state capaci di condividere esperienze e ricordi estremamente privati a persone che avevano conosciuto pochi minuti prima e con cui non avevamo mai avuto rapporti. Questo è stato possibile grazie all’autenticità di chi ascoltava e alla voglia di condivisione da parte di entrambe le parti in causa.

Il potere della parola è infinito: il saper ascoltare veramente una persona nel momento del bisogno è qualcosa di tremendamente difficile, soprattutto se ciò che viene condiviso riguarda argomenti particolarmente toccanti, tristi o duri da digerire.

Queste persone hanno saputo mettersi a nudo di fronte a noi; sono state capaci di farci vivere, almeno per un secondo, quello che avevano dentro e che consumava la loro anima da tempo.

Molto spesso anche il solo rimanere in silenzio aiuta più di qualunque altra parola: non è sempre necessario dover dire qualcosa per aiutare una persona; anzi, a volte ci sono stati momenti in cui la parola non era più abbastanza, ma serviva una pacca sulla spalla o un abbraccio: un contatto fisico.

Se c’è una cosa che mi hanno trasmesso queste persone è proprio la forza con la quale combattono ogni giorno e attraverso cui riescono ad aiutarsi reciprocamente.

 

Cosa pensi che ti abbia lasciato l’elaborazione di questa tesi? Cosa pensi che potrebbe lasciare agli occhi di chi la leggerà?

Ciò che questa tesi mi ha lasciato è sicuramente una grande soddisfazione personale. Tutto è partito, infatti, dal contatto con persone con gravi problemi alcol correlati, per arrivare a scoprire risultati che nemmeno immaginavo di trovare; risultati estremamente importati per la società e la comunità in cui viviamo.

Questa testi, quindi, non vuole presentarsi come testamento a cui rifarsi per vivere correttamente o per seguire stili di vita salutari; questo mio lavoro vuole solo portare una riflessione a tutti coloro che la leggeranno, riguardo problematiche di cui si sente parlare tutti i giorni, ma su cui, per un motivo o per un altro, non prestiamo particolare attenzione.

Oggi viviamo di pregiudizi (basti pensare al discorso precedentemente affrontato sui cosiddetti “alcolizzati” e sulle parole “abuso” o “bere moderato”) e siamo accecati da ciò che ci viene spacciato come buono e salutare dai mass media o dalla moda.

Questa tesi vuole essere, quindi, uno spunto di riflessione per tutti, con la speranza che un giorno possa realmente portare delle differenze e dei cambiamenti nella società in cui viviamo, eliminando quei veli che ci impediscono di vedere alla vera realtà delle cose.

 

Un sincero augurio ad Alessandro per il suo futuro da infermiere, continua così!

Dott. Marco Tapinassi
Dott. Marco Tapinassi
Vice-Direttore e Giornalista iscritto all'albo. Collaboro con diverse testate e quotidiani online ed ho all'attivo oltre 5000 articoli pubblicati. Studio la lingua albanese, sono un divoratore di serie tv e amo il cinema. Non perdo nemmeno un tè con il mio bianconiglio.
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