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Donne al centro dell’attenzione nella Sanità Penitenziaria per le malattie infettive e mentali.

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Le donne al centro dell’attenzione della Sanità Penitenziaria. Al 31 gennaio 2021 costituivano il 4,2% della popolazione carceraria, per un totale di 2.250 unità. Una componente minoritaria, ma in crescita e soprattutto con numeri più elevati degli uomini in termini di patologie.

È quanto è emerso da uno studio ancora in corso d’opera, i cui primi risultati sono stati presentati in occasione dell’Agorà Penitenziaria 2021, XXII Congresso Nazionale della SIMSPe – Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria. Il sistema carcerario è estremamente complesso, ogni anno vi transitano oltre 100mila persone; recentemente è stato messo a dura prova dal Covid, che però, nonostante i timori iniziali, non ha provocato danni significativi. Per questo ora occorre riportare l’attenzione sulle altre patologie, in particolare quelle mentali e infettive.

DONNE IN CARCERE: I NUMERI DELL’EPATITE C – Lo studio realizzato da ROSE – Rete dOnne SimspE ha affrontato le infezioni da HIV e da Epatite C nelle donne detenute in diverse carceri italiane. ROSE è un network genere-specifico di SIMSPe sulla salute delle donne detenute, nato in occasione dell’Agorà Penitenziaria del 2016.

La coordinatrice responsabile è la Dott.ssa Elena Rastrelli, UOC Medicina Protetta-Malattie Infettive, Ospedale “Belcolle Viterbo”. La Rete studia la diffusione di HIV ed HCV nelle donne detenute, ma non si limita alle sole malattie infettive. In questa occasione, lo studio ha preso in esame 5 istituti penitenziari di 4 diverse regioni, che rappresentavano il 10% della popolazione femminile detenuta. I dati sono ancora preliminari, ma sono i più significativi mai prodotti a livello di popolazione femminile nelle carceri.

“Per quanto riguarda l’Epatite C, già i dati del Ministero della Salute evidenziano come le donne incarcerate avessero il doppio delle probabilità rispetto agli uomini e 14 volte rispetto alla popolazione generale di contrarre l’infezione – sottolinea Elena Rastrelli. – Le donne rappresentano una popolazione complessa da raggiungere, sparsa su tutto il territorio nazionale e spesso legata a storie di tossicodipendenza e prostituzione. Da novembre 2020, 156 donne detenute sono state iscritte allo studio.

Di queste, 89 (il 57%) erano italiane: l’età media era di 41 anni; 28 di loro (il 17,9%) facevano uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa. Su 134 è stato effettuato uno screening con l’innovativo test salivare per l’HCV, mentre per le altre è stato fatto per via endovenosa. Abbiamo riscontrato dati eloquenti: la siero prevalenza di HCV riguardava il 20,5%, una cifra leggermente superiore rispetto alla prevalenza riportata nella letteratura internazionale più recente, nonché di due volte superiore rispetto al 10,4% del genere maschile. Inoltre, le donne avevano un’infezione attiva in oltre il 50% dei casi”.

“La maggior parte delle pazienti risultate positive è stata colta di sorpresa: ciò evidenzia la necessità di un intervento mirato sulla popolazione femminile delle carceri, tanto più che oggi per l’Epatite C esistono terapie in grado di eradicare definitivamente il virus in poche settimane e senza effetti collaterali – aggiunge l’infettivologo Vito Fiore, Dirigente Medico Unità Operativa struttura complessa Malattie Infettive e Tropicali di Sassari. – Un altro dato interessante riguarda i pazienti coinfetti. Su 84 detenuti maschi trattati con il progetto di microeradicazione dell’HCV, solo 3 erano positivi anche all’HIV.

Tra le donne trattate nell’ambito di questo progetto, invece, quelle positive anche al virus che causa l’AIDS erano ben il 25%. Inoltre, se tra gli uomini non vi erano casi di Epatite B, tra le donne ben 5, quindi il 21%, erano portatrici anche di questo virus. Possiamo dedurre che in carcere le donne sono più esposte degli uomini alle coinfezioni”.

“Il numero limitato di donne detenute dovrebbe incentivare una maggiore attenzione, ulteriori servizi, una gestione sanitaria proattiva – evidenzia il Prof. Sergio Babudieri, Direttore Scientifico SIMSPe – In alcune carceri le donne sono poche decine di persone: in queste situazioni è possibile migliorare la sanità penitenziaria Non possiamo attendere che sia la detenuta a chiedere aiuto o ancor peggio commetta un gesto autolesionista; bisogna capire i bisogni dei singoli”.

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