Medicina nell’antica Grecia: cosa voleva dire essere un medico?
Nell’Antica Grecia l’arte medica era considerata un’attività artigiana e prevedeva alcune figure professionali, diverse fra loro. In larga misura, la professione medica veniva trasmessa di padre in figlio: qualora si avesse voluto intraprendere la carriera medica senza esser figlio d’arte, occorreva effettuare un tirocinio a pagamento presso un professionista.
Si svilupparono due correnti mediche: quella scientifica e quella empirica. Per molto tempo la superstizione e le pratiche magiche furono collegate al trattamento delle malattie, considerate manifestazioni di intercessioni demoniache.
Ciò fomentò lo sviluppo della figura dell’eroe-guaritore nella letteratura del tempo. Ne sono un esempio i versi di Omero: nell’Iliade, con gli abili chirurghi Macaone e Podalirio, e nell’Odissea, con l’episodio della guarigione di Ulisse, ferito dal morso di un cinghiale. Nella mitologia troviamo riferimento alla dea Panacea, figlia di Asclepio e di Epione: ella era la personificazione della guarigione e custodiva una pozione universale per curare ogni male.
A partire dal V secolo a.C. andò sviluppandosi un approccio maggiormente scientifico alle malattie, grazie anche alla comparsa di corporazioni mediche, fra le quali ricordiamo la scuola di Cos e la scuola di Cnido. Si diffuse anche la letteratura medica, in particolare il Corpus Hippocraticum.
In questa raccolta, fra le tante, troviamo anche alcune indicazioni per i medici su come scegliere il giusto locale da adibire ad ambulatorio. Questo si presentava composto di stanze ariose e soleggiate, arredate con scarso mobilio e gli strumenti medici venivano disposti appesi al muro per mezzo di ganci.
Il medico era coadiuvato dall’operato di un assistente, il quale aveva il compito di porgergli gli strumenti durante alcune procedure, tenere fermi i pazienti e preparando le miscele.