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giovedì, Marzo 28, 2024
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Coronavirus. Si muore per scompenso cardiorespiratorio.

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Emergenza Coronavirus. Si muore per scompenso cardiorespiratorio. Ricerca italiana su decessi per Civid-19.

«Da quello che abbiamo potuto riscontrare finora dagli esami autoptici condotti allo Spallanzani, le vittime di Covid-19 muoiono per scompenso cardiorespiratorio». A parlare dello studio condotto in collaborazione con Franca Del Nonno, responsabile di Anatomia patologica, e Nicola Petrosillo, direttore del Dipartimento clinico, è Francesco Vaia, direttore sanitario dell’Istituto Spallanzani, specializzato in malattie infettive. Lo riferisce la collega Clarida Salvatori sul Corriere della Sera.

«A loro va il mio ringraziamento, anche per l’impegno quotidiano che stanno mettendo in questa emergenza».

Quindi, secondo quanto è stato possibile osservare dalle autopsie, si muore per una grave coinvolgimento dei polmoni e del cuore?

«Esatto. Tutti i pazienti presentano una polmonite bilaterale interstiziale associata ad una vasculite, ovvero una forte infiammazione dei vasi sanguigni. Inoltre sia il cuore che i polmoni vanno in fibrosi. Che vuol dire che si ispessiscono e si affaticano fino a che non reggono più».
Ed è per questo che molti parlano dell’utilità di una terapia con l’eparina?
«Esattamente».

Per quanto riguarda invece gli altri organi? Vengono intaccati in qualche modo dal virus ?

«Finora non abbiamo mai trovato niente nell’encefalo. E altri organi, come reni o fegato, spesso erano già minati da patologie oncologiche».

Quante autopsie sono state effettuate allo Spallanzani su pazienti affetti da coronavirus?

«A oggi diciotto. Va considerato però che l’esame autoptico non si effettua su tutti i pazienti deceduti. Si fanno su indicazione della direzione sanitaria, dell’autorità giudiziaria oppure della famiglia. L’età media dei malati defunti sottoposti ad autopsia è di oltre 70 anni e, ad eccezione di due casi che sono il 50enne trasferito dal Policlinico Casilino e il 34enne di Cave che era un soggetto sano, tutti soffrivano di gravi patologie pregresse».

È cambiato il vostro approccio terapeutico dall’inizio dell’epidemia a oggi?

«Assolutamente sì. Ma voglio innanzitutto ricordare una cosa: che questo è un virus che stiamo studiando adesso e che la cosa importante è che le persone guariscano. Comunque all’inizio, con i primi pazienti che ci siamo trovati a trattare, ovvero i due turisti cinesi di Wuhan, abbiamo usato degli antivirali combinati e l’azitromicina che è un antibiotico, ma lo abbiamo utilizzato per la sua azione antinfiammatoria. Su chi è ricoverato in terapia intensiva è invece molto efficace il Remdesivir».

E successivamente?

«Abbiamo notato che la forte infiammazione che questo virus scatena produce interferone e interleuchina, che attivano i sistemi coagulativi. Per questo abbiamo introdotto dei farmaci che sono ora alla sperimentazione dell’Aifa: il Tocilizumab e Sarilumab. Sono medicinali anti-artrite».

E come è andata?

«I primi dati empirici sono favorevoli, ma serve approfondire».

Ora state procedendo in questo modo?

«Sui pazienti ricoverati procediamo anche così. La vera novità è quello che si sta facendo sul territorio, ovvero sui pazienti positivi in isolamento domiciliare. E su cui la direzione dello Spallanzani sta portando avanti uno studio. Stiamo cioé sperimentando l’uso di Clorochina e Idrossiclorochina, che sono antivirali e al tempo stesso antinfiammatori. Uno studio che finora sembra dare risultati promettenti. Ma che va monitorato perché sembra che possa dare effetti collaterali».

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