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Le droghe come comunicazione tra io e sé: nuove prospettive di analisi delle tossicodipendenze.

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Il monito di Leoncini e Maremmani per una nuova coesione delle discipline psicologiche e psichiatriche per mettere al centro la persona e non la malattia nel trattamento delle dipendenze.

Ci sono nuove prospettive nella cura delle tossicodipendenze: apre infatti nuovi scenari un articolo dal titolo “Le droghe come comunicazione tra io e sé” pubblicato in lingua inglese su “Heroin Addiction and Related Clinical Problems” (la più importante rivista scientifica internazionale sul tema delle dipendenze da oppiacei, giornale ufficiale dell’Europad, l’Associazione Europea per il trattamento delle dipendenze da oppiacei) firmato da Thomas Leoncini, dottore in psicologia e scrittore internazionale pubblicato in più di venti lingue e da Icro Maremmani, scienziato, psichiatra e professore dell’università di Pisa, ritenuto uno dei massimi esperti mondiali in campo della medicina delle dipendenze.

L’articolo esamina e rivisita alcune delle teorie portanti della psicologia di Carl Gustav Jung (psicologia analitica) per renderle utilizzabili a fini terapeutici nel trattamento della tossicodipendenza. In particolare l’articolo mette in luce gli evidenti punti d’incontro tra il concetto di sé (selbst) e lo stato psichico a cui va incontro (si identifica) il mondo interiore del tossicomane. Altro obiettivo dell’articolo è suggerire con chiarezza la necessità di una netta distinzione tra l’io e il sé, essenziale diversificazione per intraprendere un percorso efficace di stabilizzazione dello stato psichico del tossicomane: un punto di partenza necessario per un nuovo approccio multidisciplinare tra psicologia e psichiatria nello studio della dipendenza.

Secondo gli autori è arrivato il momento di spostare l’obiettivo della ricerca: dalla malattia alla persona e quindi dalla ricerca e vidimazione della diagnosi (come fosse un interruttore on/off) allo studio approfondito del mondo interiore del soggetto, riconoscendo che la droga non crea nulla, la droga amplifica il mondo interiore e sviluppa potenziali immaginativi già presenti nel soggetto, ma latenti e offuscati, incastrati tra il mondo interiore dell’io (il centro della mente cosciente) e il mondo interiore del sé (la totalità psichica).
Si legge nel testo che “quando la droga colpisce l’inconscio, nello stesso istante abolisce le divisioni e i mondi frammentati vengono fusi, ma il senso di interezza è illusorio, ciò che lascia una volta terminato l’effetto della sostanza è il potere numinoso della dipendenza. L’incontro con la totalità, l’incontro con l’interezza è infatti la soddisfazione non meritata del tossicomane, che poi cercherà con ogni mezzo di riappropriarsene.
È come se la droga aiutasse il soggetto a travalicare il confine tra l’io e il sé, come se permettesse al soggetto di essere “soddisfatto di aver capito” lasciandolo poi però inerme, incapace di tornare nello stato di comprensione dell’interezza indotto dalla sostanza tossica, senza il reiterarsi dell’assunzione della sostanza stessa”.

L’articolo prosegue poi con un parallelismo chiarificatore tra la morfina e l’archetipo della madre: “il cucciolo di animale, se allontanato dalla madre, presenta manifestazioni evidenti di sconforto, manifestazioni che spariscono se la madre torna con lui. Se invece di riavvicinare la madre si vuole eliminare la manifestazione di sconforto con mezzi farmacologici, si possono somministrare vari tipi di farmaci (dalle benzodiazepine ai neurolettici, fino ai barbiturici) ma l’unico effetto che sporadicamente si può ottenere è una certa sedazione. La sostanza che, a dosi piccolissime, determina invece l’assoluto placarsi dello sconforto nel cucciolo (in modo del tutto analogo all’avvicinamento della madre) è la morfina. Ciò significa che nelle manifestazioni dovute all’attaccamento e al distacco (quindi con matrice relazionale) è implicato quel sistema con il quale la morfina va ad interagire.

Il dato di fatto che l’attaccamento della madre naturale possa essere sostituito (seppur con limiti temporali) da una sostanza come la morfina o l’eroina sembra indicare che ad una certa dimensione del sé, lo stesso sé vada ad identificarsi con la forma (primordiale) piuttosto che con l’immagine (de facto), ossia con l’archetipo della madre, piuttosto che con la madre naturale”.

L’articolo sottolinea a più riprese che la via maestra per tentare una congiunzione tra l’io e il sé è sempre un archetipo, ossia l’immagine primordiale già presente in ogni essere umano, ma in stato latente.
L’effetto della droga tende a estraniare dal mondo esterno chi ne fa uso: le sensazioni prodotte soddisfano completamente il mondo interiore del soggetto.
È impossibile scindere questo senso di integrità dal potere numinoso che produce sull’individuo. Ed è per questo che la tossicodipendenza può anche essere descritta come “sete spirituale” che necessita di un’autentica conversione radicale alla psicologia del Selbst (sé). Quando si pensa alla spiritualità si pensa al divino e la scienza è ben lontana dal riuscire a dimostrare l’esistenza di Dio; ciò che però appare già scientifica è la categoria, di innegabile esistenza, alla quale appartiene la sfera divina: la categoria degli archetipi.
Gli archetipi si possono infatti riprodurre spontaneamente sempre e ovunque, indipendentemente dalle influenze esterne. In ogni psiche sono presenti (in forma inconscia ma assolutamente attiva) forme, disposizioni, idee in senso platonico, le quali istintivamente preformano e influenzano i nostri pensieri, i nostri sentimenti e le nostre azioni. Essi però non sono determinati dal punto di vista del contenuto, bensì della forma, e anche questo in misura assai limitata.

Dopo aver citato alcuni casi clinici, l’articolo si conclude con un monito per tutti: “la via maestra per la stabilizzazione della sostanza con l’archetipo, con il simbolo, è sempre la presa di coscienza del sé attraverso il tentativo di esaltare con un ponte la comunicazione tra l’io e il sé. Alienazione è una delle parole più citate nella letteratura clinica sulle tossicodipendenze, è nostro dovere constatare che solo nei simboli non ci si sente stranieri”.

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