Il linguaggio dei comi ha mille sfumature.
Quello che segue è un racconto autentico e anonimo di un marito che ha assistito la moglie negli ultimi suoi mesi di vita. Lei era affetta da cerebrolesione e lui era ospite alla “Casa di Accoglienza” di Montecatone. in esclusiva per il quotidiano sanitario nazionale AssoCareNews.it.
“Sono pura umanità gli ammalati quando giungono all’ospedale, in coma. Immobili, stretti da legacci invisibili, mani e piedi, senza sorriso e senza pianto. Con lacrime che sgorgano solo per comunicare, da occhi che, da soli, esprimono tutti i sentimenti. Sono esseri umani la cui voce rimane prigioniera nelle trappole dei muscoli disconnessi. E’ come se la ragnatela di nervi si fosse tutta confusa. E la parola non segue il cervello, e il movimento non segue il comando. Ma tutto sta all’interno del corpo e della mente, senza che fuori giunga neanche l’eco di quel drammatico grido che ruggisce dentro il corpo immobile. Per tre volte sono stato svegliato da questo grido: un grido di dolore e di rabbia.
Fin quando un mattino la voce, finalmente, ha trovato la forza e la via per uscire dalle labbra appena socchiuse, con rabbia, con veemenza: “rispondetemi, rispondetemi!” Un grido al quale siamo stati tutti sordi, parenti, medici, infermieri. I primi perché non capivano, gli altri perché non ascoltavano. L’ammalato in coma è pura umanità, custodita in un guscio di sofferenza e d’impotenza. Ha estremo bisogno di ascolto per ricollegarsi col mondo. Ma non bisogna mai dimenticare che si tratta di una persona con un nome, un cognome ed un’identità che non può venire trascurata o mortificata.
Eppure, appena si varca la soglia dell’ospedale, sembra che la parola “umanità” acquisti altri significati. Si tolgono gli abiti e la persona diventa “nuda umanità” come Cristo in Croce quando implora “Padre mio perché non mi ascolti”!
L’essere umano diventa “paziente” magari “posto al centro dell’interesse” come recitano tante belle affermazioni delle quali, a volte, l’eco si disperde nelle sofferenze delle corsie.
Spesso nessuno tenta di “ascoltare” il suo sguardo allarmato allorquando si avvicinano ombre “armate” di flaconi, bottiglie e siringhe: un grido che non ha il suono della voce ma l’intensità di uno sguardo colmo di lacrime, che spesso non sgorgano, legate anch’esse da legacci invisibili a pupille a volte apparentemente spente, a volte vivaci.
E’ atroce parlare con gli occhi mentre nessuno ti ascolta, perché l’ascolto è sinonimo di orecchi ma per gli ammalati l’ascolto è sinonimo prima di occhi.
Il battere di ciglia può rappresentare un grido di dolore o un’espressione di affetto; due occhi che si chiudono un grande messaggio di amore, d’intensa emozione o la chiusura desolata al mondo esterno che non ascolta.
Chi potrà mai scrivere un dizionario del linguaggio di chi, in coma, viene considerato, un vegetale, ma invece è un essere che mantiene intatta tutta la sua carica di umanità, la sua intelligenza e la sua identità, la sua cultura, non avendo il male “formattato” il cervello?
Intanto, dall’interno della sua prigione corporea, l’ammalato si vede circondato da un mondo di sordi che, presi dall’impegno primario di guarire il corpo, a volti dimenticano che in esso è rinchiusa, in una prigione senza cancelli, un’anima: una ricchezza di sentimenti e di affetti che cercano la strada per uscire all’esterno, magari racchiusi in una sola lacrima che riga il volto immobile e senza espressione.
Una lacrima, che molti giudicano casuale, ma nella quale, colui che vede col cuore oltre che con gli occhi, legge tutta la struggente disperazione di chi comunica solo così con i propri cari e col mondo.”
Angelo (ndr nome di fantasia), 2002