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Samanda, Infermiera: “grazie ai nostri figli, mariti e famiglie per la forza che ci danno per combattere Covid”.

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Samanda Pettinari, Infermiera di stanza sui pazienti Covid-19: “grazie ai nostri figli, mariti e famiglie per la forza che ci danno”.

Carissimo Direttore di AssoCareNews. It,

sono Samanda Pettinari, un’infermiera, una delle tante infermiere che da circa due mesi e mezzo si trovano ad affrontare il nemico invisibile. Lavoro nella Misericordia del mio paese come autista soccorritore, in una Casa di riposo come infermiera e sono una volontaria del Cives (Coordinamento infermieri volontari per le emergenze sanitarie): ebbene sì, qualche ora di volontariato bisogna pur farla. Una combinazione di abbinamenti che ai tempi del Covid-19 fanno molto paura.

Il mio è un mondo che, per chi lo guarda da spettatore esterno, risulta difficilmente comprensibile. È un mondo che ti cambia, modifica i tuoi bioritmi, muta le tue priorità e, purtroppo, ridimensiona anche il tuo carattere.

È come un amante che ti chiede di dedicargli tutte le tue energie e alla fine, per tutto il resto, ne avanzano proprio poche. Spesso si rischia di mettere in discussione i rapporti più forti e boicotta quelli sul nascere. Perché, nel corollario umano che gravita intorno a medici, infermieri e soccorritori, possiamo trovare il marito devoto e orgoglioso che accetta con spirito di sacrificio gli straordinari, le chiamate notturne, le assenze in famiglia, ma poi ci sono figli che sentono la mancanza dei baci e degli abbracci a cui erano abituati, ma se ne fanno una ragione perché la mamma ha scelto un lavoro che non tutti riescono a fare.

Vivere in questi ambienti e in questi periodi è “Resistenza”. È cercare di dare il meglio che puoi, in scienza e coscienza per salvaguardare le nostre famiglie, i nostri colleghi e gli utenti. Turni che si intrecciano, rigidi protocolli da rispettare e pochi momenti per te, per riprenderti dalle ansie dalle paure che non ti lasciano nemmeno un momento. Erano i primi di marzo quando sono stata richiamata in associazione perché dovevamo affrontare una dura prova, sette persone tra colleghi e volontari sono stati contattati dell’ufficio d’igiene in quanto erano stati a contatto con un paziente positivo al Covid-19 e quindi dovevano fare l’isolamento preventivo di 14 giorni a casa.

Nella mia realtà è iniziato tutto così, come una doccia fredda o come un brutto incubo da cui vorresti subito svegliarti, invece eravamo svegli e ci siamo dovuti rimboccare le maniche. Le nostre giornate iniziano alle sette di mattina, arrivi in sede, prendi servizio, metti la mascherina, controlli che in tasca ci sia la boccetta di disinfettante e qualche paio di guanti. Poi si inizia. C’è chi prende le chiavi dell’automedica, chi apre i portoni dei garage e chi invece parte per i servizi programmati. Ti guardi intorno, incroci gli sguardi dei collegi con la speranza nel cuore che tutto andrà bene ed eviti l’abbraccio mattutino, quello che ti dava la carica per iniziare la giornata!

Neanche la rituale colazione al bar è più permessa, ma per fortuna ci sono le nostre mamme che ci preparano la torta di mele e la spremuta d’arancia fresca fresca (perché la vitamina C fa bene contro l’influenza) da portare in sede e dividere con tutti! Poi, quando arriva quella chiamata e devi metterti la tuta… ti assicuri di aver chiuso la lampo e che tutte le parti del tuo corpo siano sigillate, indossi gli occhiali protettivi, la mascherina… poi rivolgi lo sguardo al tuo collega per assicurarti che anche lui sia protetto e parti. In ambulanza ripassi tutti i passaggi per evitare che ci siano problemi ed errori, e allora per sicurezza metti un paio di guanti in più.

Arrivi sul posto e senti la paura, vedi tanta paura negli occhi di chi sta male ma soprattutto in quelli dei familiari, che si fanno coraggio, ma la paura di non rivedersi è tanta, il fatto di non poter stare vicino spaventa, come spaventa la solitudine… Quando stai lì, stai distante perché hai paura, ma cerchi di dare il tuo meglio, fai tutto quello che dicono i protocolli ma soprattutto ci metti la cosa più importante, il cuore. Nella corsa verso l’ospedale ti passano mille pensieri in testa, e se la mascherina fosse troppo larga? Se la tuta si fosse strappata? Rivedi passo passo tutti i movimenti che hai fatto, sperando di non aver sbagliato nulla. Lasci il paziente in Pronto Soccorso e inizi a pulire, anche gli angoli più nascosti del vano sanitario ti spaventano. C’è il pensiero che possano essere contaminati e rispetti tutti i tempi scritti sui flaconi dei detergenti/decontaminanti che magari prima non avresti mai rispettato.

Poi inizia un’altra attesa. L’esito del tampone che non deve essere positivo, perché la sera devi tornare a casa oppure hai il turno in Casa di riposo da coprire dove gli ospiti ti aspettano. Aspettano la loro infermiera per la terapia o semplicemente per scambiare due chiacchiere o due coccole virtuali. Tanti non sanno cosa significa lavorare in una Casa di riposo, eppure se n’è parlato molto in questo periodo. Sembra che le case di riposo siano dei lager dove gli ospiti sono lasciati lì a sé stessi, dimenticati da tutto e da tutti, sono luoghi in cui dopo una certa età, le persone devono “andare”. Le giornate anche lì iniziano alle sette in punto, ma per te infermiera, o oss che sia, la sveglia è già suonata da un pezzo. Inizi con le cure igieniche, con la terapia, con i parametri vitali. Una routine che si ripete giorno dopo giorno.

Davanti a te c’è una persona che non la spogli solo dei suoi abiti, ma anche della sua dignità, che ti chiede scusa se ha sporcato il pannolone, che ti chiede di far uscire il collega perché si vergogna. Cerchi di vestirla di tutto punto, improvvisi una boutique nel suo armadio e prendi le veci del miglior coiffeur in circolazione. Che cosa sai di lei? Che è ipertesa, diabetica, che ha due figlie, e poi… Non sai nulla. L’hai conosciuta quando già le sue capacità cognitive erano compromesse, e la vedi indifesa, vulnerabile. Cerchi di immaginarla come era alla tua età, ma ti resta difficile, allora per aiutarti chiedi ai suoi parenti. Spesso ascolti descrizioni che non ti aspettavi, “era un maresciallo”, ti dicono.

E allora in quel momento ti fermi a pensare come saresti tu alla sua età. Perché il tempo non sente ragioni, non si ferma per nessuno. I turni durano circa sette o dieci ore, ti rendi conto che la maggior parte del tuo tempo la trascorri proprio con loro o in associazione, così le tue realtà diventano la tua seconda famiglia. E tu diventi la loro, soprattutto per chi adesso la loro famiglia possono vederla solo per telefono! Oggi, più che mai, sono loro ad essere i più vulnerabili, allora cerchi di difenderli come meglio puoi: sei la loro coperta, il loro faro. Non sono pazienti, ma una persona cara, una a cui vuoi veramente bene.

Mi rammarico a leggere articoli che parlano delle Case di riposo come luoghi di morte, luoghi in cui l’anziano è diventato vittima del sistema, in cui gli operatori sono diventati i loro carnefici. Noi siamo quelli che fuori turno chiamiamo il collega per sapere com’è andata la terapia, se la febbre è scesa. Noi siamo quelli che “non ti preoccupare, te la compro io l’acqua oppure vieni che ci dividiamo un caffè”. Fuori da qui, per il mondo, loro sono i nostri pazienti, ma qui dentro per noi sono i nostri nonni! Alcuni di loro mi chiedono: “Oggi sei uscita con l’autoambulanza?”. Mentre altri mi chiedono: “Perché tu sei in prima linea? Lì c’è un grande rischio. Non ti preoccupi di portare il nemico invisibile con te?”.

Oggi più che mai amo il mio lavoro e la mia professione, abbiamo rischiato la vita fino ad ora, ma mai nessuno ci aveva dato peso prima del coronavirus, eppure c’è sempre stata la meningite, la tubercolosi, le epatiti, l’HIV. Non c’è nessun ambiente lavorativo in cui la condivisione di momenti belli e meno belli è così forte da poter essere assimilato a una vera e propria famiglia. Una famiglia in cui si intrecciano e mescolano tutte le sfumature dei rapporti affettivi. Sono questi i posti dove ti viene difficile nascondere quando hai il muso o se hai voglia di piangere nelle giornate storte, perché qualcuno se ne accorge ed è pronto a prenderti da parte e consolarti. È quel posto in cui si partecipa con la stessa emozione ed intensità alla felicità di una bella notizia o alla sofferenza di racconti meno belli.

Un posto in cui magari si litiga, ci si manda a quel paese, ma il giorno dopo si è di nuovo pronti a lavorare fianco a fianco e a darsi una mano. Dove ognuno ha la sua vita, la sua storia, le sue gioie, i suoi dolori, ma quando indossa la sua divisa, mette indosso anche un sorriso ed è pronto a dedicarsi agli altri. E se abbiamo scherzato, dissacrandolo, l’aspetto sentimentale e amoroso della vita, altrettanto non possiamo fare con quello che è un altro sentimento di grande valore: l’amicizia. Esiste, ed è bellissima anche in posti così, che sia l’associazione o la Casa di riposo. È nel sacrificio di un collega che ti fa un turno per permetterti di andare a casa, è negli attimi rubati a raccontarsi gli ultimi avvenimenti, è in quei rapporti che crescono giorno dopo giorno, in quei messaggi che ti strappano un sorriso, nelle parole e nei piccoli gesti che ti accarezzano il cuore.

La sofferenza con cui ci confrontiamo ogni giorno è lì a ricordarci quanto effimeri siano i nostri dispiaceri e i nostri tormenti, quanto tempo sprechiamo a dare importanza a cose che in realtà non ne hanno, quanto male viviamo, spesso, la nostra vita. In fondo a chi ci considera dei privilegiati, direi che il privilegio è sostanzialmente questo: fare esperienza della vita vera, quella autentica, che passa purtroppo anche attraverso l’esperienza della morte, e farne tesoro per imparare a vivere ed essere persone migliori.
Anche questo momento passerà e spero che ci ricorderemo di quanto ci mancavano gli abbracci, i baci e le carezze. E che non possiamo dare tutto per scontato come abbiamo fatto fino ad ora. Concludo con dei ringraziamenti. Lo so, ne abbiamo fatti un sacco di ringraziamenti in questi mesi, ma ci siamo dimenticati di un ringraziamento importantissimo da fare. Grazie alle nostre famiglie, alle nostre mamme e ai nostri padri, ai mariti e alle mogli, ai nostri figli… che anche loro indirettamente si espongono al rischio invisibile, pur di starci vicino per non farci avere paura!

Samanda Pettinari, Infermiera OPI Fermo

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