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Lara: “sono Infermiera e anche Paziente e non sono rompiscatole”.

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Gentile Direttore di AssoCareNews.it,

mi chiamo Olivieri Lara e oltre ad essere un’Infermiera sono anche paziente. Sono affetta da grave patologia degenerativa progressiva di origine autoimmune e vengo seguita presso la reumatogia/immunologia di un noto ospedale dell’interland milanese e l’INT di Milano.
Ho un’invalidità dell’80%, legge 104, contrassegno invalidi e congedo di 30 giorni annui relativi alla legge 119 per terapie connesse all’invalidità.

Da quindici anni passo la mia vita come infermiera presso un’ASST dell’interland milanese e come malata presso i due ospedali sopra citati.

Ho deciso di scindere i miei ruoli:

  • dove sono assunta sono Lara l’Infermiera;
  • dove mi curo Lara la paziente.

Quanto scritto dalla collega nell’articolo in oggetto mi ha lasciata basita. Trovo a dir poco imbarazzante il titolo ed i contenuti ad esso correlati. Ho deciso di riportare la mia testimonianza ed il mio punto di vista in merito senza pretendere che venga condiviso.

Dall’esordio della malattia l’equipe che mi ha presa in carico ha spesso espresso il parere che io sia la paziente che tutti vorrebbero.

I medici sostengono che le mie compentenze siano tali da permettermi di capire nell’immediato la clinica,le terapie proposte e quant’altro, abbattendo il muro che spesso trovano con persone che non sono in grado di argomentare e spesso comprendere.

Le colleghe che mi seguono, presso il DH in cui accedo mensilmente, hanno sempre avuto un atteggiamento professionale nei confronti di tutte noi pazienti e non si è mai reso necessario, da parte loro, contestare il mio comportamento come paziente.

Ho degli accessi venosi difficili, per cui sono loro stesse a chiedermi dove incannulare per evitare inutili tentativi a vuoto (questo è uno dei mille esempi che potrei fare in merito alla gestione ottimale perpretata da queste professioniste).

Non mi sono mai permessa di salire in cattedra recitando una lezioncina.

Per cui generalizzare penso sia riduttivo e fuori luogo.

Credo che ci siano persone fragili che non riescano ad accettare la patologia,l’ospedalizzazione( a maggior ragione se in parte consapevoli dei risvolti delle patologie e a volte dell’assistenza messa a dura prova da turni snervanti e infiniti) e di conseguenza volontariamente o meno, sembra che mettano a dura prova chi li assiste come se stessero testando le capacità del collega.
Potrebbero aver paura o chissà. .. allora si difendono reagendo impulsivamente manifestando degli atteggiamenti effettivamente poco corretti che mettono a dura prova anche le menti più equilibrate… di maleducati e supponenti è pieno il mondo ed è inutile negarlo.

Ma il nostro lavoro prevede lo stretto contatto con l’utenza e il nostro ruolo prevede anche la gestione dello stress dovuto ad incomprensioni, malumori, ansia ecc…

Cosa dovrei dire in merito a tante colleghe che hanno passato il tempo a giudicarmi come lavativa, furba, raccomandata per essere stata esonerata dalle notti e dai turni?

Mi è stato confermato un part time orizzontale di 30 ore settimanali con riduzione oraria di due ore legge 104.

E quindi? E cosa devo dire dei “beata te! Vorrei essere io al tuo posto!” Oppure sentirmi dire,una volta tornata dalle ferie, “che sei andata da padre pio? T’ha fatto u miracolo cosi torni a fare i turni?” (cito testuali parole per far capire il livello di alcune ‘colleghe’ con le quali,da anni,fortunatamente non condivido più nulla).

Da quando ho iniziato a lavorare ho sempre sostenuto la tesi che i colleghi non siano tuoi amici, né la tua famiglia: i colleghi non si scelgono (così come loro non scelgono te), ci si ritrova in turno nel momento in cui si prende servizio e ogni lavoratore deve convivere con queste persone in modo civile, produttivo e costruttivo indipendentemente dalla simpatia o meno.
Quando il ruolo si inverte facendo sì che un IP/collega diventi paziente, con tutte le sue fragilità, il vero professionista addetto all’assistenza ha il dovere di non confondere i ruoli.

Ci vuole pazienza e comprensione. Generalizzare non è corretto. Così come puntare il dito.

Provate a pensare se foste voi in quel letto, con tutto il vostro vissuto, con tutte le vostre preoccupazioni, con tutte le vostre fragilità e non da meno con le vostre competenze.

Con i pazienti si è più tolleranti… perché con un collega no? In quel momento è un paziente probabilmente più fragile degli altri. Sta a noi il buon senso di lavorare e approcciare in modo adeguato e anche se siamo stanchi non possiamo sperare che il collega sia di aiuto anche se malato, togliamoci questa idea.

Il collega/paziente può dimostrarsi diffidente per mille ragioni… in quel momento è indifeso, le sue certezze sono crollate indipendentemente dalla patologia che lo affligge.

Siamo noi a prestare assistenza e lui è lì per riceverla.

È il nostro lavoro, è stata una nostra scelta.

Un infermiere non sceglie di ammalarsi… nessuno lo sceglie, capita.

Un infermiere sceglie di fare l’infermiere e ha il dovere di farsi carico di tutto ciò che ne conseguirà.

Ammalarsi vuol dire affrontare momenti difficili dove le certezze vengono meno, dove tu malato capisci che non puoi organizzare un ‘piano di lavoro personale, non puoi pianificare una fuga per evitare un evento malattia, il passato resta passato: quello che eri fino a quel momento si blocca, la tua mente continua a darti l’imput per fare tutto come prima dell’evento,ma il tuo corpo risponde in modo totalmente differente.

I tempi di risposta variano da persona a persona… c’è chi si dispera, chi se la prende con sé stesso e/o con il mondo che lo circonda, c’è chi prende il toro per le corna e inizia già da subito a collaborare (io sono per quest’ultimo tipo di approccio).

Il presente ti porta a capire che devi essere te stesso e che la patologia fa parte del tuo ‘essere umano’.

Allora fai il punto della situazione con gli specialisti, i colleghi… ma soprattutto con te stesso.

Gestisci l’impatto familiare e successivamente lavorativo.

In questo momento di profondo cambiamento è giusto trovare la comprensione e professionalità degli infermieri che ti accompagneranno durante l’ospedalizzazione.

Ognuno di noi sviluppa un’idea del sé positiva, le aspettative sono tante e quando vengono improvvisamente disilluse la realtà diventa pesante.

Realizzi un progetto portando a termine il ciclo di studi in infermieristica, inizi a professare… poi vieni catapultato in una realtà dove tu sei l’assistito e, nel mio caso specifico viste le limitazioni date dalla patologia, gli eventi fanno sì che a livello lavorativo non sei più idoneo per il tuo ruolo assistenziale. .. tanto studio e impegno ridotti ad un puro interesse culturale. Stravolgi la tua vita come professionista e non solo… Devi reinventarti. Ma poi il tempo viene in aiuto e, grazie alla coordinatrice, le colleghe e i medici della U.O. dove presti servizio trovi il tuo posto come lavoratore e come professionista. Perché è più difficile rapportarsi come collega/malata/limitata con l’equipe quando sei in servizio rispetto a quando sei ricoverata come paziente.

Nella sfortuna mi reputo fortunata dal punto di vista lavorativo e famigliare, altri non possono dire altrettanto.

Quando si vivono queste esperienze si ha bisogno di riferimenti solidi, ed è doveroso da parte dell’IP assistere con fermezza e pazienza anche il collega/paziente che manifesta un comportamento da ‘orco’, supponente, saccente, maniaco del controllo…

Chi non è in grado di capire e gestire queste situazioni particolari lascia che il proprio ruolo di infermiere decada miseramente.

Buon lavoro a tutti.

Olivieri Lara, iscritta all’OPI Interprovinciale di Milano Lodi Monza Brianza

* * *

Grazie Lara per la tua testimonianza. Noi abbiamo pubblicato una lettera di una lettrice che ha il diritto di sfogarsi e di comunicare liberamente il suo pensiero, così come ha fatto te. Ti ringraziamo per il tuo lungo contributo, ne faremo tesoro. Continua a seguirci.

Angelo Riky Del Vecchio, Direttore quotidiano sanitario AssoCareNews.it

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