Gentile direttore di AssoCareNews.it,
ho letto con vivo interesse l’articolo recentemente pubblicato: “Dottori, Infermieri o IP: avete il coraggio di siglarvi con il titolo accademico?” ; è un argomento che mi sta molto a cuore, per due motivi. Vi spiego quali.
Anzitutto ricordo perfettamente un commento nella mia tesi di laurea specialistica/magistrale: “Responsabilità e Professione – Il Giuramento delle Professioni Sanitarie”, ove ripercorrevo esattamente i punti normativi puntualmente snocciolati nell’articolo, in particolare la c.d. “legge Gelmini” , per contestare un passaggio di un codice deontologico (lo studio “core” ha riguardato l’analisi dei decreti ministeriali istitutivi e dei codici deontologici delle allora 22 professioni sanitarie) che, nell’ambito della pubblicità sul professionista de quo, testualmente affermava (e forse tutt’ora afferma):
«ad evitare simboli, frasi, denominazioni, marchi che possano essere interpretati come pertinenti alla professione medica».
Il mio commento al passaggio:
«Non è ammissibile.
Il complesso delle norme di legge di riforma, già dispone ampiamente il reiterativamente qui riscontrato rispetto delle altre professionalità sanitarie – tutte – non soltanto quelle mediche; Rappresenta certamente una “escusatio” , ed appare come un timore reverenziale da pieno periodo di dominanza medica, tipico di professionalità che implicitamente si auto-caratterizzano e auto-connotano come “minori”; mortifica le professioni sanitarie.
Nel merito specifico della attribuzione di titoli (“denominazioni”), infatti, secondo il D.M. 270/2004, spetta ai laureati che abbiano conseguito una laurea di durata triennale o un diploma universitario della stessa durata (Legge n. 240/2010 comma 2° dell’art. 17 – c.d. “Riforma Gelmini”), La qualifica di “Dottore”; mentre a chi abbia conseguito una laurea specialistica/magistrale (secondo la nuova denominazione) di durata biennale o una laurea specialistica/magistrale a ciclo unico della durata di cinque anni o sei anni nel caso di medicina e chirurgia e odontoiatria e protesi dentaria, nonché a tutti i laureati del vecchio ordinamento, sia che la durata della laurea fosse di quattro o di cinque anni, spetta il titolo di “Dottore Magistrale”.
La prima edizione di questo codice è del 1968; l’ultimo aggiornamento è del 2001; è evidente la necessità di un pronto aggiornamento.»
Tutto ciò agevola il secondo, più problematico e preoccupante aspetto che in qualche modo giustifica una tale resistenza della (ahimè) maggior parte degli aventi diritto (reazione che peraltro ho avuto modo, a suo tempo ma anche oggi, di sperimentare anche quotidianamente, nella iniziale diffidenza anche di alcuni colleghi e di tanti altri soggetti – utenti compresi – che ancora si esercitano in espressioni, soprattutto facciali, di attonimento misto a disapprovazione alla vista del mio tesserino identificativo), riluttanza quindi che non riguarda soltanto una questione di denominazione (quindi eventualmente di “sigla” di formalità), ma di mera responsabilità “tout court” , che consegue alla ordinaria attribuzione dell’appellativo (quindi il rispetto dell’utilizzo del titolo sul posto di lavoro, ossia farsi chiamare “dottor Rossi” invece che “Sig. Rossi” o in altro modo); mi spiego meglio: la mia impressione è che tale “timore reverenziale” – atteggiamento del tutto trasversale tra professioni ed anagrafica – stia tutto nella percezione dei limiti insiti nella cultura generale di un professionista sanitario oggi operante, e parlo anche di quelli delle nuove generazioni, che comunque sembra anche siano tutt’ora formati secondo una, pur dissimulata ed inconfessata, ideologia ancillare e subalterna dei professionisti sanitari NON medici; sono ancora di stretta attualità, infatti, tematiche assai spinose, quali (solo per citare le principali):
– una più puntuale caratterizzazione al livello di decreti ministeriali istitutivi di competenze e responsabilità; queste ultime dovrebbero ulteriormente essere discriminate, come proposto nel mio studio, in “professionali generiche” e “professionali specifiche”;
– la varia eterogeneità di insegnamenti ed attività effettivamente impartiti nelle università: ancora in Italia è difficile trovare anche due soli Atenei Universitari che abbiano un medesimo piano didattico: tale divergenza dagli “ordinamenti didattici ministeriali” di formalità rappresenta un forte limite alla formazione di professionisti con un bagaglio formativo e culturale omogeneo e soprattutto corrispondente;
– la mancata consapevolezza che il processo normativo di “omogeneizzazione” delle professioni sanitarie, ponendo senza distinzioni un medesimo “pool” di reati “professionali caratteristici” verso tutti i professionisti, impone un sostanziale (e non formale, o da diplomificio/creditificio) aggiornamento culturale;
– la necessità di promozione, trasversale da tutti gli organi rappresentativi centrali, di una riorganizzazione normativa che tenga conto di alcune “imprecisioni” tra i precedenti dispositivi normativi, come quella riguardante la “autonomia professionale” , che la normativa 42/99 riconosce a tutte le professioni, mentre nella successiva 251/00 è specificatamente “in pieno” riferita al solo art. 1 – Professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica;
– il superamento della pressoché onnipresente locuzione normativa “fatte salve le competenze previste per le professioni mediche” , emblematico retaggio di una società ancora pienamente vittima della Friedsoniana “Dominanza medica”;
– la assenza sia di definizione che di riconoscimento, di un campo di “azione comune” a tutti i professionisti sanitari, che realizzi un reale profilo interlocutorio “peer to peer” verso i medici, il cui motivo centrale è una, al momento assente, preparazione di fondo sulla “diagnosi e trattamento delle principali patologie umane”, accompagnata da un corso di “infermieristica di base e BLS” per tutte le professioni sanitarie e anche da competenze in ambito di “dinamiche relazionali, comportamentali e di comunicazione” – argomento al momento trattato pressoché in specifico riferimento dei master in coordinamento;
– il superamento di autentiche “mascalzonate istituzionali”, sia di mancata “ratifica normativa” : il comma 566 della legge 190/2014 (legge di stabilità 2015: trasferimento delle competenze semplici e di base dai medici ai professionisti sanitari, che ha destato ampia eco, con dibattito anche aspro nonché irrispettoso), sia “giurisprudenziali”, quali la sentenza 54/2015 (i professionisti sanitari non possono, al pari dei medici esercitare in libera professione autonoma).
– Il dovere da parte degli organi centrali di rappresentanza di promuovere un serio aggiornamento dei codici deontologici – alcuni dei quali, ancora ad anni dallo studio, davvero di scadente qualità, al limite dell’imbarazzo – in una prospettiva di comune armonizzazione, eventualmente con la istituzione di una “Commissione inter-ordinistica di etica sanitaria e deontologia professionale”, magari da collocare in seno alla Direzione generale delle professioni sanitarie e delle risorse umane del Servizio Sanitario Nazionale del Ministero della Salute.
– Il dovere da parte degli organi centrali di rappresentanza di contrastare in tempo vere e proprie “invettive normative” – quali l’ultimo DM 10/08/2018 concernente la“Determinazione degli standard di sicurezza ed impiego per le apparecchiature di risonanza magnetica”; situazioni che fanno compiere enormi passi indietro ad una popolazione di professionisti (nel caso infermieri e TSRM) di oltre mezzo milione di persone.
Sono evidenti quindi i limiti che, eventualmente, giustificherebbero una certa “timidezza”, dei professionisti “dottori in titolo”, vittime anche del costante, obliquo sopruso operato dai medici, sugli eventuali battibecchi e contraddittori che potrebbero nascere anche soltanto come motivo provocatorio, per verificare la “tenuta” in competenze.
Ed effettivamente quello del confronto è il tema centrale: si fa presto e bene a tacere, invece che sbagliare esponendosi … Ebbene tale teoria è la più sbagliata: perché invece in modo dinamico le competenze, la conoscenza e l’esperienza si autoalimentano con la frequenza e la pratica, dove l’eventuale errore deve essere considerato un normale incidente di percorso la cui frequenza sarà sempre più in diminuzione, mano a mano che aumenterà non soltanto la competenza ma anche la consapevolezza. Provare per riscontrare – non per credere.
Quindi, un invito a tutti: non siate timidi, esigete il titolo anche sul luogo di lavoro! Se l’azienda non lo ha scritto sul tesserino o sull’abbigliamento fate formale richiesta, oppure fatelo voi stessi.
Iniziate ad essere dei dottori nella firma, nell’atteggiamento e nella responsabilità.
Avete sudato per ottenerlo. NON derubate nessuno – NON è un reato. È un semplice DIRITTO.
Calogero Spada, TSRM e Dottore Magistrale