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Intervista esclusiva: Infermiere in carcere, quali realtà?

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L’infermiere si potrebbe definire come quel professionista sanitario che può trovare necessarietà in quasi tutti gli ambienti sociali tipici della nostra civiltà. Per dirla più colloquialmente, l’infermiere è come il nero: sta bene su tutto. Ovunque ci sia un bisogno assistenziale, ovunque ci sia un bisogno clinico e ovunque ci sia un bisogno relazionale.

Quanto affermato richiede un’elasticità tutta infermieristica che genera di fatto una lunga serie di possibili sottoprofili, ognuno di essi fedele alla genetica identitaria professionale ma al contempo diversificato dagli input ambientali differenti.

Al fine di garantire il progresso della professione infermieristica tutta è opportuno interrogarsi e promuovere soluzioni circa le criticità che ogni singolo setting assistenziale propone perchè di fatto rappresenta ostacolo all’intera famiglia professionale.

Abbiamo raggiunto in esclusiva la dottoressa Mariaflora Succu, Direttore Operativo dello Studio Auxilium, per parlare dell’infermiere e dell’assistenza infermieristica negli ambienti penitenziari.

Nonostante una cultura civile e, siamo onesti, scientifica che ancora legano fortemente l’assistenza agli ambienti ospedalieri, l’assistenza infermieristica all’interno di strutture penitenziarie è frutto di radici costituzionali. Per iniziare, potrebbe spiegarci come si sviluppa questo servizio?

Il Servizio Sanitario Nazionale entra ufficialmente in carcere nel 2008, quando in forza di legge l’assistenza sanitaria in favore dei detenuti gli è affidata. Fino al 2008 era l’Amministrazione Penitenziaria a farsi carico dei bisogni di salute dei detenuti, declinando in maniera abbastanza differenziata in ogni Istituto la risposta a tale bisogno. Quindi nel 2008, le singole ASL per competenza territoriale hanno ricevuto in affidamento questo particolare tipo di assistiti. Ciascuna ASL è dunque entrata negli Istituti penitenziari cercando di fare un po’ di ordine laddove, per ovvie ragioni, regnava, in maniera più o meno accentuata, una sorta di caos. Non se ne voglia l’Amministrazione Penitenziaria di questa affermazione, di fatto questa attività non rappresenta per ovvi motivi una attività congeniale a chi ha una formazione, e conseguentemente obiettivi, di tutt’altro genere, le stesse difficoltà le incontrerebbe il mondo sanitario qualora si trovasse ad occuparsi di sicurezza e detenzione. Il lavoro di riorganizzazione dell’assistenza sanitaria, intesa nella sua più ampia accezione, non è stato né semplice né omogeneo, né tantomeno si può dire terminato.

L’ambiente carcere come influenza la valutazione e pianificazione infermieristica?

La influenza in modo determinante, poiché ogni atto sanitario deve necessariamente coniugarsi con l’obiettivo della sicurezza e con il rispetto del regolamento carcerario, nonché con la specificità della tipologia di detenuto: una cosa è l’assistenza ad un detenuto semilibero, un’altra quella a chi è sottoposto a misure detentive di maggior restrizione, si pensi ad esempio ai reparti di massima sicurezza. Non mi è possibile per ovvi motivi affermare che in ogni Istituto Penitenziario si procede in modo omogeneo, posso, invece, parlare della mia esperienza nella implementazione di servizi di assistenza infermieristica e di supporto in alcune importanti realtà carcerare italiane, riscontrandone certamente in prima battuta la disomogeneità. Il concetto di accertamento infermieristico non è, lo ripeto, nella mia esperienza, trasversale. La pianificazione è estremamente difficile e riservata ad alcune patologie, soprattutto in ragione dei numeri. Per meglio comprendere le difficoltà che si possono incontrare nella pianificazione dell’assistenza in carcere è sufficiente dire che un reparto di detenzione può accogliere oltre 300 detenuti a fronte di due/tre infermieri in servizio per turno di lavoro. A queste ragioni di rapporto numerico infermieri/assistiti si aggiungano le difficoltà di tipo strutturale e tecnologico: le prime attengono ad esempio al fatto che i locali sanitari nelle carceri sono “ricavati” e non nativi, fatto che logisticamente rende difficoltosa l’erogazione dell’assistenza, le seconde attengono alle ragioni di sicurezza che impediscono o limitano fortemente i sanitari nell’utilizzo dei sistemi informatizzati. La mia esperienza mi fa affermare che nelle carceri c’è ancora troppa carta e troppa frammentazione della documentazione assistenziale.

Parliamo di livelli di sicurezza: in quale misura e in quali modi l’ambiente espone l’infermiere a rischi?

La tipologia di pazienti che si assistono in un Istituto Penitenziario, in cui c’è una prevalenza di patologie attinenti la sfera psichica, soprattutto a seguito della definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e del relativo riassorbimento dei detenuti nelle carceri ordinarie, espone di per sé l’infermiere a maggiori rischi nello svolgimento della propria attività quotidiana. Il detenuto tende inoltre a simulare condizioni cliniche allo scopo precipuo di uscire dalla detenzione per essere accolto presso strutture di cura o presso il domicilio, per cui è un paziente difficile per definizione, aumentando i rischi professionali di chi lo assiste se non sufficientemente in grado di “leggere” eventuali simulazioni e discriminarle da reali condizioni cliniche più o meno critiche.

L’ambiente fisico espone inoltre l’infermiere per le oggettive differenze in caso ad

esempio di evacuazione, poiché la restrizione necessariamente è in grado di aumentare i tempi di messa insicurezza di detenuti ed operatori.

Infine, ma non per importanza, l’ambiente “psicologico” incide sulla sicurezza dell’infermiere esponendolo al rischio di burn out o comunque di fenomeni di stress correlati all’attività.

Sono tutti aspetti che devono essere sottoposti ad attenzione particolare.

L’orientamento dell’assistenza ai bisogni è un pilastro portante della nostra professione. A tua opinione, pensi si manifestino differenze tra bisogni all’interno dei penitenziari rispetto alla società civile?

L’orientamento generale è il medesimo, anzi si può affermare che rispetto ad alcuni bisogni specifici ci sia addirittura una maggiore attenzione per i bisogni espressi dai detenuti rispetto a quelli della popolazione libera, se non altro perché comunque il detenuto, provato della libertà, si trova in una evidente posizione di svantaggio rispetto al cittadino comune.

Se parliamo invece di una pianificazione dei bisogni individualizzata, attraverso una pianificazione assistenziale, questa è riservata, per ragioni numeriche, oggettive e di opportunità, ad alcuni ambiti e casi specifici. Sono rispettati i piani terapeutici legati a determinate condizioni cliniche, come ad esempio nel caso delle dipendenze. C’è comunque ancora molto da fare per la popolazione detenuta, in termini soprattutto di prevenzione. C’è da dire inoltre che la popolazione detenuta è multietnica e multiculturale, di conseguenza non è pensabile che il detenuto di altra cultura/etnia accetti i nostri schemi salute/malattia: c’è l’esigenza di individuare i diversi approcci alla salute, decodificarli ed offrire contestualmente una chiara chiave di lettura del nostro modo di fare salute. Si pensi ad esempio agli screening per l’individuazione della positività ad alcune patologie infettive, in assenza di una manifestazione clinica evidente, cui i detenuti di altra etnia difficilmente aderiscono, semplicemente poiché nella loro cultura all’assenza di sintomi corrisponde l’essere sani. Su questo tema è opportuno lavorare.

E’ possibile parlare di continuità di cure tra il periodo del cittadino da detenuto rispetto al libero stato?

Non è possibile negare che vi sono diverse difficoltà, il detenuto già solo per il fatto di uscire dalla condizione detentiva, ha spostato la sua attenzione rispetto alla sua salute su altre priorità. Di certo è informato rispetto al territorio ed indirizzato quindi ai percorsi assistenziali della popolazione libera.

Quali pensi siano le priorità attuali che permetterebbero di avvantaggiare il raggiungimento di stati di salute migliori per tutti i detenuti?

Sappiamo che tra i più importanti determinanti dello stato di salute, prima ancora dell’efficienza dei sistemi sanitari, vi sono gli stili di vita, gli ambienti e la loro salubrità/insalubrità. L’ingresso in un carcere stravolge completamente tutti i determinanti, le ricadute in termini di salute psicofisica sono pesanti e pressoché inevitabili. La mia opinione è che bisognerebbe lavorare prioritariamente su questi elementi, la salute dei detenuti ne risentirebbe positivamente in maniera netta.

Rilevo anche che i detenuti che hanno accesso al lavoro vedono un miglioramento delle loro condizioni di salute, soprattutto dal punto di vista psichico, poiché l’attività lavorativa offre un proposito alla vita in carcere, in alcuni casi, nelle situazioni più virtuose, rappresenta l’elemento riabilitativo troppo spesso sottovalutato rispetto a quello detentivo puro. Vi sono nel nostro Paese, ed in altri Paesi dell’Unione Europea, esempi virtuosi che dovrebbero essere utilizzati come modello. Laddove al detenuto viene offerta la possibilità di imparare un mestiere, accrescere le proprie conoscenze, instaurare relazioni positive con altri detenuti e con chi entra nel carcere con fini educativi e riabilitativi, i risultati sono brillanti e a tutto tondo, quindi anche sullo stato di salute. Inoltre, non è da sottovalutare che i dati ci dicono che le recidive di atti criminosi sono in stretta relazione con l’esperienza di vita in carcere.

Allo stato attuale, purtroppo, invece, dobbiamo rilevare che la propensione al suicidio in Italia della popolazione detenuta è mediamente di oltre 10 volte superiore a quella della popolazione libera. Un dato che dovrebbe farci riflettere.

Grazie per la disponibilità.

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