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Infermieri e Professionisti Sanitari: non facciamo il Don Abbondio!

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Professionisti sanitari: quali doveri etici?

Professionisti sanitari: diritti e doveri, anche etici!

Infermieri, Infermieri pediatrici, fisioterapisti, logopedisti, ostetriche, tsrm e tutti gli altri, nessuno escluso. Tutti noi abbiamo doveri morali che prescindono dall’incappare in sanzioni e in conseguenze negative. Una riflessione etica e deontologica, un viaggio dentro la nostra stessa identità!

Leggendo questo breve trattato, molti di voi si chiederanno del perché io abbia deciso di introdurre i concetti di etica e diritto facendo partire la riflessione dalla narrativa e, nello specifico, da un personaggio enigmatico sotto diversi aspetti: di fede, della morale e della “correttezza” legale. La mia intenzione è semplice: dimostrare che, anche se si parla di lavori diversi, c’è un denominatore comune, rappresentato dal fatto che sono tutte  e  comunque “professioni”, le quali hanno diverse caratteristiche in comune: provvedono alla cura, rispondono a valori etici (e deontologici) e possono essere soggette a sanzioni morali, disciplinari e giuridiche in senso stretto. Ho sempre ritenuto opportuno, come poc’anzi ho accennato, sottolineare che quando si parla di professioni occorre necessariamente parlare degli aspetti che caratterizzano quella professione dal punto di vista etico, deontologico e di diritto perché, ognuna di queste materie definisce quell’attività in una ottica particolare, quindi vengono definiti i valori, i principi, i costumi e, se previste, le sanzioni stimate in base alla gravità del danno o potenziale in quanto tale.

Questo per dire che sia le professioni sanitarie sia quelle non, hanno diritti e doveri peculiari per il campo che ricoprono; l’ambito della narrazione in generale e della medicina narrativa costituiscono un buon punto d’appoggio dal quale poter far partire la riflessione etica (e giuridica) volta a spiegare, delineare e puntualizzare fatti riconducibili alla volontà del soggetto narrante (in ambito sanitario, del professionista) e di colui che subisce, positivamente o negativamente, un evento.

Don Abbondio, come da ricordi scolastici di tutti noi, è un personaggio de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni; il prelato, “esercente la professione” non per vocazione ma perché poco propenso al sacrificio del  lavoro e per i facili introiti economici, era incaricato di unire in matrimonio una giovane coppia, Renzo e Lucia.

Una sera, durante una delle sue solite passeggiate, venne fermato da due Bravi (sinonimo di sicari) mandati da Don Rodrigo, signorotto locale, potente e meschino, innamorato di Lucia; Don Rodrigo, non conoscendo le armi della seduzione, voleva possedere la ragazza con l’unico mezzo a sua disposizione, la violenza.

I due Bravi intimarono Don Abbondio a non praticare la sacra unione ed egli, codardo e tendenzialmente schivo alle difficoltà, pur comprendendo che non ci avrebbe guadagnato nulla, acconsentì alla richiesta dei due “scagnozzi” di Don Rodrigo. Il matrimonio non venne celebrato nel giorno desiderato dai due giovani e, per raggiungere il loro obiettivo, Renzo e Lucia dovettero attraversare tutta una serie di vicissitudini particolari.

Nella situazione in cui si è trovato il prelato, cos’era giusto o meno fare? Sarebbe stato più corretto che egli avesse cercato di dissuadere i sicari dal loro compito, magari esponendo le ragioni per cui le loro richieste erano considerate sbagliate o, è stato giusto cedere a tali pretese senza avanzare obiezione? Nei confronti di chi avrebbe subito un danno, quale sarebbe stato l’atteggiamento più appropriato? Portarli subito a conoscenza dei fatti o negare, facendo conto di nulla, ciò che sarebbe di lì a poco successo? Quale sarebbe stato il miglior modo di garantire protezione a sé stesso e agli altri? Quindi com’era giusto e doveroso comportarsi?

Una prima risposta a tutte queste domande la può fornire l’etica, ramo della filosofia che si occupa delle azioni dell’uomo, distinte in buone o cattive e non legate a quelle azioni che il diritto giuridicamente distingue in lecite o proibite.

L’aggettivo “etico” deriva dal greco ethikos, derivante a sua volta dal sostantivo ethos che significa “consuetudine”, “costume”. Lo stesso significato ha il latino mos. Dal termine mos origina moralis, da cui l’italiano “morale”. Diversi autori preferiscono distinuere tra “etica” e “morale”: la prima è intesa come un insieme di valori, credenze e costumi riconosciuti validi in una determinata società e, la seconda, è intesa come il tentativo di giustificare razionalmente tali idee e valori.

La nascita della riflessione filosofica sulla morale risale al V secolo, con Socrate, il quale si chiese come si doveva vivere e a quali criteri si doveva ispirare la condotta umana. Il metodo socratico consisteva nel porre quesiti al proprio interlocutore e, sollecitandolo a risposte sempre più precise e circonstanziate, occorreva arrivare a delle definizioni valide per tutti. Questo metodo, definito come “metodo della ricerca della verità”, affermava che non si poteva dire nulla di specifico fino a che, di un fatto o di un comportamento, non se ne conosceva l’essenza, la vera natura, ovvero ciò che fa essere una cosa speciale in quanto tale e diversa da tutte le altre.

Secondo Socrate, in primo luogo, occorreva individuare l’essenza delle virtù, ovvero ciò che permette all’anima di essere buona; la virtù è conoscenza e quest’ultima è il mezzo per purificare l’anima dagli errori e dalla corruzione. Il contrario della virtù è il vizio, inteso come non conoscenza, quindi ignoranza.

Originariamente l’etica, in quanto condivisa dalla società fondamentalmente credente, era un’etica di tipo religioso perché le norme e i valori erano caratterizzati da una origine divina, volti a incentivare o discriminare determinati tipi di comportamento in una credenza comune di derivazione divina. Esempi ne sono la morale ebraica o quella cristiana: strettamente parlando, questi morali non costituiscono un’etica, dal momento in cui i valori non sono soggetti a una riflessione filosofica né, tanto meno a uno sforzo di giustificazione razionale. Nonostante tutto, solo successivamente nei secoli il cristianesimo ha prodotto una ricca tradizione di riflessioni filosofiche a partire da un dato di fede: nasce la “teologia”. Fino al ‘600, etica e teologia, si sono influenzate in quanto, i filosofi morali, si sono impegnati a riflettere sui contenuti della fede e giudicare se essi potevano o meno essere compatibili con la ragione razionale.

Proviamo ora, in base alle considerazioni fin’ora avanzate, a rispondere alla domanda in cui si chiedeva cos’era giusto o meno fare in una situazione minacciosa, come successa a Don Abbondio.

Secondo la morale comune di allora e, in considerazione dei precetti religiosi, il matrimonio era un vincolo sancito come sacro da una “entità” superiore, Dio: egli sceglie le anime e le unisce nel sacro vincolo coniugale. Dinnanzi all’ingiuria dei due bravi, il prelato agendo di fede, avrebbe dovuto imporre (se anche la componente caratteriale l’avesse permesso) la visione di Dio e, in quanto messaggero di una autorità suprema, avrebbe dovuto puntualizzare un dissenso assoluto a tali richieste. In altri termini, nel rispetto dei dieci comandamenti, forse avrebbe potuto appellarsi al primo che così recita: “Non avrai altro Dio all’infuori di me”. L’appello a questo precetto avrebbe concretizzato una posizione, adottata dal prelato, di assoluta obbedienza a Dio e, nel riconoscerlo in quanto tale, avrebbe significato respingere ogni altra imposizione, a costo della propria vita.

E per quanto riguarda la posizione da assumere nei confronti dei promessi sposi? La morale comune, molto probabilmente, avrebbe desiderato che il prelato, quale portatore di verità assolute, avesse annunciato ai giovani futuri sposi le minacce che incombevano su di loro, soprattutto nei confronti di Lucia.

Un’altra alternativa, nell’ottica della correttezza morale e dell’onestà verso la propria “professione”, sarebbe stata quella di incontrare Don Rodrigo e dissuaderlo dal suo volere, magari facendo fede al nono comandamento (“Non desiderare la donna d’altri”) e all’importanza di essere persone benevoli, buone di cuore, come la fede prevede.

Queste che ho appena elencato sono solo alcune soluzioni che una morale universalmente condivisa potrebbe accettare. Nell’elencarle, ho fatto riferimento all’etica professionale che “lavora” a trecentosessanta gradi e alle regole che un “credo” o una comunità adotta.

Però osservando bene i fatti, il nostro Don Abbondio si è comportato in maniera completamente diversa: è vero che l’etica può giustificare il comportamento di una persona in base anche agli aspetti tipici caratteriali, però egli, ovviando in maniera meschina agli obblighi degli uomini di fede, complice una propensione caratteriale di suddistanza e timorosa di tutto, è incappato in una serie di conseguenze che gli si sono rivolte poi contro, come la storia descrive.

Ecco che, di conseguenza ad atteggiamenti contrari alla “professione”, interviene il diritto.

Etica e diritto, nonostante siano ambiti differenti, hanno qualche aspetto in comune: innanzitutto, il loro minimo comune denominatore è la condotta dell’uomo e, più precisamente, la sfera dei rapporti tra esseri umani. Inoltre, sempre come punti di incontro, fanno riferimento a norme e valori che hanno l’obiettivo di orientare il comportamento.

Il diritto però, a differenza dell’etica, presuppone un codice, scritto o meno e, un’autorità il cui compito è quello di giudicare la condotta. L’etica non necessariamente prevede la stipula di un codice e la riflessione morale prende in considerazione l’agire nella molteplicità delle sue componenti, riconoscendo un ruolo centrale anche alla qualità interiori di chi agisce. Inolte l’etica non ha bisogno di un giudice esterno, come fa il diritto, perché da adito solo all’autorità della ragione.

Le norme del diritto hanno il compito di uniformare esteriormente il comportamento del soggetto, non il grado di adesione interiore: ciò significa che sono costretto a rispettare quella determinata legge, anche se non la condivido (grado di adesione interiore) perché, altrimenti, incorrerei in potenziali sanzioni spiacevoli. Queste ultime, le sanzioni, rappresentano un’ulteriore differenza tra etica e diritto. Come detto poc’anzi, se una norma giuridica non la si rispetta, ci sarà una “punizione”; quest’ultima non è prevista se non si rispetta una norma morale però, in alcuni casi, può essere peggiore una sanzione morale concretizzata in forme di riprovazione sociale o nel rimorso interiore.

Ecco che il comportamento del prelato, non curante dei precetti religiosi e soprattutto del danno fisico e morale che tale condotta negativa avrebbe causato nei confronti dei due ragazzi, trova condanna da parte del suo superiore che lo richiama all’ “ordine” e dal destino che lo fa ammalare di peste.

Riassumendo quanto detto fino ad ora, il comportamento del prelato può essere così riassunto: negligente, imprudente, imperito, non osservante le regole della morale comune e quelle deontologiche della professione. Se Don Abbondio fosse vissuto nella nostra epoca, con i suoi atti beffardi, sarebbe incappato in una serie di  sequele giuridiche e di condanna da parte della società non indifferenti.

Spero di non aver annoiato con questa introduzione; il prossimo “appuntamento” si concentrerà sugli aspetti salienti dell’800 e, in particolar modo, la nascita dello stato liberale e dei suoi rapporti con la società. Ovviamente, come mia consuetudine, ci saranno riferimenti ad autori importanti che, in vario modo, hanno condizionato il pensiero e le azioni degli uomini a venire.

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