L’infermiere è il professionista sanitario responsabile dell’assistenza infermieristica generale (DM 739/94).
Quante volte ce lo siamo sentiti dire tra i banchi universitari tante altre volte lo abbiamo visto disatteso nella realtà clinica. Questa frase non è soltanto un capisaldo della nostra disciplina etica, guarda caso rappresenta il primo articolo del nostro codice deontologico attualmente in vigore.
E’ l’essenza del nostro essere infermieri.
Un valore fondante la professione infermieristica da difendere con le unghie e con i denti, tanto che se esistesse un Altare della Patria infermieristico, sarebbe sicuramente inciso dove tutti potrebbero leggero.
Cosa sta quindi accadendo nelle realtà cliniche? In che modo lo stiamo perdendo?
Stiamo esattamente trasportando la nostra essenza senza accorgersi che goccia dopo goccia si sta disperdendo.
La dispersione è subdola è si riassume sinteticamente ma esaustivamente nella rinuncia voluta o forzata della pianificazione assistenziale.
Qualsiasi ruolo “responsabile” del mondo lavorativo valuta e pianifica, gli infermieri invece stanno tralasciando questo aspetto fondamentale. In quale modo?
Il nostro miope istinto di esercitare la versione meramente pratica del sapere e saper fare sgomitando su qualsiasi atto assistenziale comporta lo schiacciamento del ruolo professionale sotto una mole straordinariamente pesante di prestazioni pratiche da dover svolgere. Che siano sotto la forma di atto assistenziale o di atto burocratico, ci troviamo sempre di più a dover fronteggiare elenchi puntati di cose da fare con orari da rispettare.
Questa saturazione del tempo ci costringe a trascurare qualcosa e questo qualcosa si identifica assai spesso nella valutazione, nella pianificazione, nella rivalutazione.
Diffusamente viviamo il momento della valutazione (pensiamo ad esempio all’utilizzo delle scale di valutazione) come un tempo perso, come un tempo inutile o ingombrante.
La rivalutazione è spesso sommaria o assente. Ed è inutile negare le evidenze.
Preferiamo non adeguare la pianificazione alle evoluzioni dei bisogni del paziente piuttosto che lasciar fare un atto assistenziale a un’altra figura professionale. Abbiamo davvero così paura che se negli anni ci discostassimo dalla nostra amata bacinella reniforme nessuno ci riconoscerebbe più?
O forse non ci riconosceremmo noi stessi?
Non ci siamo. Forse siamo davvero noi i primi a non concepirci per quello che siamo realmente.
Stiamo perdendo la battaglia a difesa della natura della nostra identità. Le insidie sono subdole e spesso nebulose per questo occorre osservarle, parlare, ponderarne e cercare strategie utili a questa difesa. Interpellando ovviamente anche livelli organizzativi e dirigenziali.
Non esiste l’infermiere se non si tutela la sua identità. Non esiste sapere e saper fare efficace in assenza del saper essere.