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Infermiere di famiglia: il Coronavirus dà il colpo di grazia ad un sogno mai realizzato?

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Infermiere di famiglia e comunità: il Coronavirus sta dando il colpo di grazia a qualcosa nato zoppo, facendo emergere tutte le difficoltà di un profilo indefinito nei fatti.

Infermiere di famiglia e comunità: elemento che proietta tutta la famiglia professionale nel futuro della Sanità grazie anche a fresche tinte di rinnovamento.

Ma davvero nei fatti è questo?

Le segnalazioni arrivano da voci appartenenti a diverse Aziende italiane che hanno ufficialmente recepito e sviluppato l’Infermiere di famiglia fra le proprie fila. E queste voci raccontano tutte la stessa verità.

L’Infermiere di famiglia sta ricevendo il colpo di grazia dall’emergenza Coronavirus, dito nella piaga di un progetto nato bello ma mai davvero realizzato.

Ma facciamo un passo indietro.

Chi è l’infermiere di famiglia e di comunità?

Nel 1998 l’OMS Europe introduceva la figura nel documento “Healt 21” e da allora è iniziato il lungo calvario del riconoscimento di questa novità professionale.

Dopo un percorso durante il quale chiunque abbia avuto un microfono o una penna ha provato a dire la sua, arrivano le prime delibere che riconoscono il ruolo e la sua importanza (esempi sono la Toscana, con la delibera del 597/2018 ma anche il Piemonte con la 32-5173/2017).

La consacrazione nazionale arriva il 13 maggio scorso, quando nel Decreto Rilancio viene inserito all’articolo 1 comma 5 la frase “Al fine di rafforzare i servizi infermieristici, con l’introduzione altresì dell’infermiere di famiglia o di comunità […]“.

La legge è chiara: questo infermiere s’ha da fare, in tutta Italia!

Lieto fine? Manco per sogno.

Problema uno: chi diventa infermiere di famiglia e comunità?

Le dinamiche di istituzione del profilo sul campo deludono e fanno sorgere quesiti.

Il primo grande problema riscontrato è l’individuazione dei colleghi da investire del ruolo.

Esistono Master di I livello (online e in presenza) ma i formati sono veramente pochi e spesso non sono dipendenti delle Aziende.

La normativa dice che le Regioni possono prevedere l’acquisizione di personale autonomo (partite iva) da destinare alla mansione. Ma è una mezza soluzione condizionata dal solito dilemma: è realmente utile formare e rendere esperto personale a tempo determinato?

Un dilemma importante, sopratutto alla luce della delicatezza del ruolo in questione.

Nella maggior parte dei casi si è proceduto allora con la riassegnazione dei colleghi dei servizi territoriali che in pochissimo tempo e con pochissima formazione (affermazioni derivanti la loro diretta testimonianza), si sono trovati a cambiare nome dell’u.o. sulla casacca.

Problema due: cosa fa l’Infermiere di famiglia e comunità?

Una vera presa di posizione precisa manca e si vede. La FNOPI ha elaborato un documento che ipotizza le funzioni della figura ma alla fine ogni delibera regionale indica alcune attività che gli competono.

Sebbene su questo si potrebbe discutere, lo stesso Decreto Rilancio determina la competenza regionale sull’individuazione e organizzazione.

Problema tre: il Sistema non è pronto.

A questo punto abbiamo gli infermieri di famiglia. Grazie alla loro professionalità, esperienza e spirito di adattamento, riescono a reggere l’urto della “ridestinazione”.

Nasce però un problema serio. L’infermiere di famiglia e comunità è elemento centrale all’organizzazione della presa in carico dei bisogni dei pazienti e, quindi, si deve interfacciare con gli altri elementi del sistema sanitario.

I quali però, nella maggior parte dei casi, non sono pronti a questo tipo di interscambio. I motivi riportati dai colleghi sono principalmente riconducibili a:

  • Mancanza di conoscenza delle competenze dell’infermiere di famiglia e comunità da parte degli altri servizi;
  • Mancanza di autorevolezza della figura presso gli altri servizi.

Succede quindi che l’Infermiere si trova a cantarsele e suonarsele da solo, senza che nella maggior parte dei casi vi sia una presa in in considerazione di quanto viene presentato dal professionista.

Il bisogno del cittadino viene quindi rivalutato da 0 dal servizio di “approdo”.

Problema quattro (zonale): problema economico e finta libera professione.

In alcune realtà (Lombardia in primis) l’impiego di personale in libera professione sta creando un problema articolato.

All’alba dell’istituzione del servizio, emerse la notizia che l’infermiere di famiglia e comunità sarebbe stato assunto in libera professione e che la retribuzione oraria sarebbe stata molto allettante: 30 euro/h.

In aggiunta era promesso al professionista di misurarsi nel ruolo appena nato che esaltava la figura infermieristica.

Queste motivazioni hanno portato una parte dei dipendenti pubblici a mettersi in aspettativa e aprire la partita iva.

Nei loro calcoli, i guadagni sarebbero stati ingenti a fronte però di un bel sacrificio speso in orari di lavoro importanti.

La beffa è arrivata perchè le competenze non solo quelle attese oltre 140-150 ore non è possibile lavorare.

E al conto della serva vanno sottratte tasse, contributi previdenziali e altre spese (esempio il commercialista), circa il 60%.

Se il Coronavirus uccide l’Infermiere di famiglia e comunità.

Il Coronavirus toglie ogni problema, ovvero allontana talmente tanto l’Infermiere di famiglia e comunità dalle sue competenze naturali da bypassare queste difficoltà.

La colpa è in parte riconducibile all’epidemia (aumento spropositato dei bisogni e rallentamento prestazionale a causa delle misure igieniche restrittive) e in parte allo stesso Decreto Rilancio che aveva indicato la nuova via.

Perchè così continua il paragrafo su citato: “Al fine di rafforzare i servizi infermieristici, con l’introduzione altresì dell’infermiere di famiglia o di comunità, per potenziare la presa in carico sul territorio dei soggetti infettati da SARS-CoV-2 identificati COVID-19, anche supportando le Unità speciali di continuità assistenziale e i servizi offerti dalle cure primarie […]“.

Come si traduce nei fatti?

Decine di infermieri di famiglia e comunità che finiscono a rimpolpare le fila dei servizi USCA (Unità speciali di continuità assistenziali) e delle cure primarie.

Insomma, finiscono a fare i manovali: fare tamponi, fare prestazioni domiciliari, fare prestazioni ambulatoriali.

Colpo di grazia?

Sebbene queste realtà siano motivate dallo stato di emergenza che è indiscutibilmente reale e concreto, l’unica speranza è che questo status quo sia strettamente momentaneo e non rappresenti il colpo di grazia ad un sogno mai realizzato realmente.

Anche perchè così è inaccettabile sia per i colleghi che per l’intera famiglia professionale.

Manovali eravamo e manovali ritorneremo, mentre chi festeggiava sul carro del decreto rilancio adesso si sente e vede veramente poco.

(PS. consiglio la lettura del documento sul profilo elaborato da AIFeC – Associazione Infermieri di Famiglia e Comunità).

Dott. Marco Tapinassi
Dott. Marco Tapinassi
Vice-Direttore e Giornalista iscritto all'albo. Collaboro con diverse testate e quotidiani online ed ho all'attivo oltre 5000 articoli pubblicati. Studio la lingua albanese, sono un divoratore di serie tv e amo il cinema. Non perdo nemmeno un tè con il mio bianconiglio.
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