Tempo fa, forse prevedendo quanto stava per accadere, il Ministero della Salute e l’allora Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI (attuale Ordine degli Infermieri), chiesero ai Professionisti Infermieri e a tutti gli altri colleghi delle professioni cugine (mediche e non mediche) di iniziare ad utilizzare Facebook, WhatsApp e gli altri Social-Network in maniera più intelligente, cercando di evitare ogni apparizione in divisa, con pazienti o in attività assistenziali. Il motivo c’era allora ed è più evidente oggi che è emerso lo scandalo attorno alla creatura di Zuckerberg.
“I canali social, come FB o Twitter, sono per gli ordini canali di comunicazione per loro natura dinamici, in quanto permettono lo scambio in tempo reale con iscritti e cittadini – ha spiegato Romano ad AssoCareNews.it – purtroppo può accadere che chi li utilizza non si renda conto di essere comunque su canali ufficiali e finisca con il commentare come se lo facesse sul proprio profilo personale. Può uscire davvero di tutto. Bisogna, moderando, mettere paletti rigidi senza però sfociare in attività di censura. Non è sempre facile ma è fondamentale, così come lo è per i singoli professionisti comprendere che non si termina di essere infermieri timbrando il cartellino in uscita dal lavoro ma lo si è anche quando si comunica via social, specie se lo si fa trattando argomenti inerenti la professione. Il codice di deontologia opera anche in quei momenti. L’immagine che diamo di noi è, in un certo qual modo, anche quella dei professionisti che siamo.”
Zuckerberg finora non ha risposto a nulla puntando il dito contro uno dei suoi uomini migliori, ovvero Alexander Kogan, che a sua volta ha respinto le accuse al mittente: “mi usano come capro espiatorio, sia Facebook sia Cambridge Analytica, ma la verità è che tutti sapevano tutto e tutti ritenevamo di agire in modo perfettamente appropriato dal punto di vista legale”.
Kogan, accademico americano figlio d’espatriati sovietici e docente di psicologia a Cambridge, non ci sta rimanere con il cerino in mano sullo scandalo del momento. E replica dai microfoni di Bbc Radio 4. E’ lui, attraverso una sua app, l’uomo che ha raccolto ed elaborato i dati di 50 milioni di utenti di Facebook per poi passarli a Cambridge Analytica, società di consulenza e propaganda politica impegnata fra l’altro nel 2016 a sostenere la campagna presidenziale di Donald Trump. Ma nega di aver ingannato chiunque. E mette inoltre in dubbio che quei dati possano aver avuto davvero un ruolo chiave nella vittoria di Trump.
“La mia idea – ha detto ieri Kogan alla Bbc – è che mi vogliono usare fondamentalmente come capro espiatorio, sia Facebook sia Cambridge Anayltica. Mentre noi onestamente pensavamo di agire in modo perfettamente appropriato, pensavamo tutti di fare una cosa davvero normale”. Kogan aggiunge di essere stato rassicurato proprio dai vertici di Cambridge Analytica che la cessione dei dati e la sua consulenza con loro fosse “perfettamente legale e nei termini contrattuali”. Del resto aggiunge di considerare alla stregua di millanterie pubblicitarie le affermazioni fatte in seguito dal management della stessa Cambridge Analytica di aver avuto un ruolo cruciale per far vincere Trump.
Al di là delle questioni internazionali resta la situazione italiana: se ad essere spiati fossimo proprio noi?