Infermiera racconta cosa vuol dire salire per primi sui barconi della speranza: tanta disperazione e pochi bagagli!
Il suo nome è Sara ed ha prestato per alcuni mesi servizio come infermiera presso un’ONG a Lampedusa. E oggi ci racconterà in esclusiva cosa voglia dire salire per primi su uno scafo partito dall’Africa carico di speranza mista a disperazione!
Sara non ha ricevuto il permesso dall’ONG presso la quale ha prestato servizio, pertanto abbiamo dovuto togliere particolari utili alla sua identificazione.
Ha prestato servizio a Lampedusa, presso il Centro Immigrazione ma non sono mancati gli interventi in mare aperto. Durante alcuni di questi le è capitato di salire su quelli che vengono definiti “barconi”, in mezzo a uomini, donne e bambini che scappavano da un intero continente in guerra. Ecco la verità raccontata dalla prima linea.
Cosa vuol dire, da infermiera italiana, affrontare la quotidianità dei centri immigrazione?
Rappresenta una realtà emotivamente dura, riflessiva. Ti porta a ragionare e rivalutare. Come le missioni all’estero, soltanto in Italia!
L’ambiente soffre molto dell’umore degli ospiti: spesso è allegro e gioioso, molte volte preoccupato e cupo. Molti si portano dietro storie terribili ed essere sottoposti a tanti controlli li sfianca. I bambini sono eccezionali e le madri gli cantano nella loro lingua.
Arrivando presto al cuore dell’intervista: cosa senti mentre in mare aperto stai per raggiungere una di queste navi della speranza?
E’ un’esperienza particolare. Non ho mai lavorato sull’ambulanza ma forse può assomigliare al periodo prima dell’arrivo ad uno scenario da codice rosso. Sai che ti aspetta qualcosa per il quale devi essere fermo, professionale, intellettualmente sobrio. Ma l’emozione c’è ed ogni onda la senti che sale fino alla gola.
A quanti soccorsi in mare aperto hai partecipato?
Tre. Uno in realtà poi si è rivelato solo una scorta fino a terra, la barca era in buone condizioni. Gli altri due invece sono stati pesanti.
Salire su di una di queste navi: come ti sei sentita?
Noi eravamo di supporto alla guardia costiera e al personale sanitario addetto al soccorso in mare, quindi avevamo un atteggiamento un pò “ospite” inteso che attendevamo ordini. Quando sono salita sulla prima “nave” mi sono subito accorta delle condizioni veramente instabili dell’ambiente. L’igiene non è possibile senza acqua e sapone, in uno spazio sporco e destinato a ricevere un terzo o anche meno degli effettivi ospiti. C’erano bambini talmente sporchi da avere gli occhi impastati e la bocca sporca già intorno alle labbra. I malati li mettono in un angolo finchè non muoiono, poi li gettano in mare. C’era anche un uomo con un taglio profondo molto infetto.
Cosa potevi leggere sui loro volti?
La principale cosa che ho visto è stata la rassegnazione a una vita privata della dignità, dell’identità, della certezza di un futuro e di un presente. La speranza c’era e qualche lampo di gioia per essere arrivati. Il viaggio per quasi tutti inizia oltre il sahara ed è uno dei flussi migratori più duri mai esistiti nella storia. Non è da dimenticare, non è un particolare.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
La consapevolezza di una verità che credevo più soft. Poi come ho detto ai miei genitori, mi ha aperto la mente più di tutti i libri di Tiziano Terzani messi insieme!
Grazie della bellissima testimonianza e complimenti per la sensibilità!