Lo sfogo disperato di un’Infermiera: “sento di non farcela più, mi viene solo da piangere”.
Le parole di questa infermiera dell’AOU di Sassari sono un pugno nello stomaco, un grido di dolore che rompe il silenzio assordante di turni massacranti e di un sistema sanitario sotto pressione. La sua testimonianza, raccolta da Sassari News, non è solo lo sfogo di una professionista esausta, ma un’accusa silenziosa a una situazione insostenibile che rischia di compromettere la qualità delle cure e il benessere di chi le eroga.
“Davvero non ce la faccio più. Sono uscita dal reparto che mi veniva da piangere… non per la stanchezza, quella è la solita. Ma per il senso di impotenza che ci sta schiacciando.” In queste poche righe si condensa il dramma di chi ogni giorno si trova a dover fronteggiare carichi di lavoro insostenibili, reparti sovraffollati, pazienti complessi e la costante sensazione di non riuscire a fare abbastanza.
La sua giornata tipo, descritta con lucidità e amarezza, è un inferno fatto di corse continue, richieste incessanti, emergenze improvvise e la frustrazione di non poter dedicare a ogni paziente l’attenzione che meriterebbe. “Ho corso per 7 ore senza quasi il tempo per andare in bagno ma non basta mai.” Una maratona umana che si scontra con la realtà di risorse umane insufficienti: “Eravamo in 4 con il solito reparto strapieno, pazienti difficili, cronici e casi sociali. Ovviamente barelle ovunque e le telefonate per chiedere se ci sono posti letto… sembra che ci prendano pure in giro”.
E poi c’è il peso delle aspettative dei pazienti e dei loro familiari, spesso comprensibilmente ansiosi e preoccupati, ma non sempre consapevoli del caos e della carenza di personale che regnano nei reparti. “Un parente mi ha urlato contro perché non avevo ancora dato un Perfalgan… e aveva ragione. L’ho scordato nella confusione: ma cosa potevo fare? Non possiamo sdoppiarci.”
Il dramma non si conclude con la fine del turno. Rientrare a casa significa indossare un’altra maschera, quella di madre e moglie che deve accantonare la stanchezza e la frustrazione per dedicarsi alla famiglia. “Sono tornata a casa distrutta ma ovviamente non posso fermarmi. Devo pensare ai bambini, capire se hanno fatto i compiti, prepararli per la notte… e devo pure sorridere perché loro non devono vedere quanto sono “svuotata”.”
La domanda che si pone questa infermiera è un eco di tanti professionisti sanitari stremati: “Chi me lo ha fatto fare? Perché ho scelto questa vita? Perché continuo a sopportare tutto questo?” Un interrogativo angosciante che svela una profonda crisi vocazionale, alimentata dalla sensazione di non essere più in grado di svolgere il proprio lavoro con la dedizione e la qualità che vorrebbero. “Non so se sono più una buona madre, non sono più una buona moglie, non sono davvero una buona infermiera.”
Le sue parole finali sono un amaro atto di resa: “Siamo delusi. Sono anni che segnaliamo tutto questo e non cambia mai niente. Ci stiamo arrendendo. Posso continuare così? Ho scelto questo lavoro perché volevo aiutare le persone, ma ora mi sembra di non fare abbastanza.”
Questo sfogo non è un caso isolato. Rappresenta la punta dell’iceberg di un malessere diffuso tra gli infermieri italiani, schiacciati da turni estenuanti, carenza di personale, responsabilità crescenti e una cronica mancanza di riconoscimento. La loro stanchezza non è solo fisica, ma anche emotiva e psicologica, un fardello pesante che rischia di compromettere la tenuta dell’intero sistema sanitario. È tempo di ascoltare queste voci, di dare peso al loro grido d’aiuto, prima che il senso di impotenza si trasformi in un’emorragia di professionisti che il nostro sistema sanitario non può permettersi di perdere.
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