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Silvia (Infermiera): “Si è fatto sempre così. Il sistema non cambia, ma sa come cambiarti”.

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Parla Silvia Fortunato (Infermiera a Bologna): “Si è fatto sempre così. Il sistema non cambia, ma sa come cambiarti”.

Uno “scudo burocratico“, così può essere definita l’espressione che con tanta frequenza “si muove” sulle labbra di molti: “si è sempre fatto così“. Vero, come diceva Winston Churchill, non sempre cambiare equivale a migliorare ma aggiungeva anche che per migliorare bisogna cambiare.

E quella di Silvia Fortunato cittadina, parente dei suoi suoceri, caregiver, infermiera è stata un’esperienza proprio con questo “scudo burocratico” che lei e i suoi familiari hanno affrontato inermi. L’abbiamo incontrata e le abbiamo chiesto di raccontarcela.

Il teologo, filosofo e umanista Erasmo da Rotterdam diceva a tal proposito: “L’uomo non ama il cambiamento, perché cambiare significa guardare in fondo alla propria anima con sincerità, mettendo in contesa se stessi e la propria vita. Bisogna essere coraggiosi per farlo, avere grandi ideali. La maggior parte degli uomini preferisce crogiolarsi nella mediocrità, fare del tempo lo stagno della propria esistenza“.

Ecco ciò che potrebbe esattamente essere individuato come il tarlo più dannoso non solo della vita umana, ma anche di quella etica e professionale: essere resistenti al cambiamento, aggrappati con i denti ai propri schemi e alle proprie idee, accaniti difensori dell’abitudine e del “si è sempre fatto così”, più impegnati nella conservazione del poco sicuro tra le nostre mani che coraggiosi avventurieri della novità.

Mai come in questi giorni mi sento davvero confusa e smarrita, ma anche arrabbiata e con la voglia ancora più accentuata di combattere il sistema dell’immobilismo burocratico perché a parlare stavolta non è Silvia l’infermiera, ma Silvia la parente, la caregiver dei suoi suoceri.

Io che per natura professionale ho sempre sostenuto il cambiamento come una leva per migliorarsi, per crescere, per provare strade nuove e nuovi percorsi. Cambiare è vero costa, ma se ci pensiamo noi cambiamo ogni giorno, cresciamo, invecchiamo, maturiamo; e questo non è cambiare? La verità è che nessuno ci accompagna al cambiamento attraverso la consapevolezza che il cambiare è necessario, anche in termini antropologici, alla sopravvivenza della stessa specie.

Ho assistito tre anni fa al cambiamento delle condizioni di salute di Antonio, mio suocero, che in seguito ad un ictus è stato poi sottoposto a tanti ricoveri e fra i tanti è subentrata una antibiotico-resistenza (AMR, Antimicrobial resistance). Il problema della resistenza agli antibiotici è complesso poiché riconosce diverse cause e quella che mi preme sottolineare è quella per a quale poi è deceduto, ovvero la diffusione delle infezioni correlate all’assistenza causate da microrganismi antibiotico-resistenti (e il limitato controllo di queste infezioni).

L’uso continuo degli antibiotici aumenta la pressione selettiva favorendo l’emergere, la moltiplicazione e la diffusione dei ceppi resistenti. Inoltre, la comparsa di patogeni resistenti contemporaneamente a più antibiotici (multidrug-resistance) riduce ulteriormente la possibilità di un trattamento efficace. È da sottolineare che questo fenomeno riguarda spesso infezioni correlate all’assistenza sanitaria, che insorgono e si diffondono all’interno di ospedali e di altre strutture sanitarie. Perché dico tutto questo, perché mi sono occupata per anni di rischio infettivo e in prima persona ho contribuito alla creazione di protocolli, linee guida e best practice per combattere le infezioni correlate all’assistenza.

Ma dovunque io andassi e ovunque io chiedessi di questo sembravo una marziana, ho dovuto guardare impotente al sistema che, regge quando ero l’infermiera che girava tra i reparti, ma che se parlavo con un medico come parente questo problema non saltava mai fuori. Perché? perché non è concesso ad un parente di parlare di questi aspetti durante un ricovero?

Dopo tre anni, stessa storia: mia suocera è ricoverata perché positiva al covid, 86 anni, multi patologie, depressa a causa della solitudine acutizzata dall’isolamento dell’ospedalizzazione. Si è instaurata una infezione, PCR alle stelle, valori alterati dell’ematocrito, stesso film?

Ci dicono che non si conosce la natura dell’infezione, da parente faccio domande, cerco di dare informazioni utili ma al momento in cui la trasferiscono da reparto covid alla medicina nessuno ha l’accortezza di avvisarci. Siamo noi dopo che, il giorno della videochiamata programmata non ricevendo alcuna telefonata, chiamiamo il reparto e così scopriamo che non è più li. Ma come è possibile che nessuno si sia accorto di questa mancanza?

Mia suocera è cosciente, chiede di noi, si sente abbandonata.Siamo anche noi abbandonati al sistema, al “si fa così”, al rispetto di regole anacronistiche.

Regole dettate poi da chi? Orari di visita impossibili, non si può entrare dandosi il cambio tra noi parenti, siamo a più di 50 km di di distanza, i medici rispondono solo al telefono, gli operatori sembrano macchine telecomandate dove si è persa l’umanizzazione delle persone e quando cerchi di rompere quel meccanismo, sembri un alieno.

Ho provato cosa significa essere dall’altra parte e forse senza troppi buonismi dovremmo imparare a riflettere quando per senso di appartenenza ci identifichiamo tutti come fossimo una famiglia.

La realtà vera è che siamo troppo in balia di chi c’è in quel momento e tutti speriamo che in quel momento ci siano persone empatiche, che personalizzano ogni malato, che lavorano mettendo al centro i bisogni reali del paziente.

In questi giorni sono ripiombata nella tristezza più assoluta perché di fronte all’ennesima richiesta di provare a cambiare il sistema, mi sono sentita dire immaginariamente “si è sempre fatto così”!

E non solo da parente, ma da infermiera mi sono sentita per la seconda volta, sola davanti a qualcosa più grande di me. Vorrei che le cose fossero diverse, perché fondamentalmente gli ospedali devono e possono essere diversi. Anche gli operatori sono diversi, ma la logica rimane la stessa perché radicata nell’organizzazione. Il servizio ospedaliero andrebbe riorganizzato nell’ottica del cambiamento, ovvero laddove mutano i bisogni devono mutare gli aspetti organizzativi.

La gente non ha bisogno solo di essere curata per le malattie ma anche e soprattutto di essere presa in carico nella sua totalità come essere umano con i suoi bisogni sì assistenziali, ma anche di una cura più interiore di cui parlava Erasmo da Rotterdam, ovvero dell’anima. Ecco perché a volte tra i gesti di cura che curano troviamo le tante testimonianze di pazienti e parenti rispetto alla gentilezza, alla cura di parole e attenzioni. Cose se vogliamo semplici ma che fanno sentire meno malate e meno sole le persone nel difficile percorso di guarigione.

Ai colleghi che formo, dico spesso in aula: quando guardiamo la persona che c’è in quel letto guardiamola con i vestiti dei nostri amati, saremo sicuramente più determinanti nel cambiare la loro situazione di fragilità.

Cambiare si può: secondo Socrate “il segreto del cambiamento è concentrare tutta l’energia non nel combattere il vecchio, ma nel costruire il nuovo”.

Marina Vanzetta – Infermiera

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