Il Silenzio dello Spogliatoio
Il profumo asettico di disinfettante non riusciva a coprire l’odore di sudore e stanchezza che impregnavano l’aria degli spogliatoi dell’Azienda Sanitaria Locale di Foggia. Erano le 7:40 del mattino. L’alba, tiepida e promissoria, filtrava appena dalle piccole finestre a oblò, disegnando strisce di luce sui pavimenti in linoleum. Un altro lunedì, un’altra settimana di turni massacranti, di sorrisi forzati e di sguardi esausti.
Marzia, infermiera da oltre vent’anni, si stava allacciando le scarpe, sentendo il solito pizzicore ai piedi che preannunciava un’altra giornata in piedi. La sua attenzione, però, fu catturata da una porta socchiusa, quella del bagno maschile. Di solito a quell’ora era già un via vai, un susseguirsi di voci assonnate e battute scambiate al volo. Oggi, un silenzio irreale. E quella porta, insolitamente non chiusa.
Un presentimento sgradevole le strinse lo stomaco. Chiuse gli occhi un istante, cercando di scacciare quell’ansia immotivata. “Sarà una sciocchezza,” si disse, ma i suoi piedi la portarono comunque verso quella porta. Con una mano tremante, la spinse lentamente.
La scena che le si presentò dinanzi la fece indietreggiare con un gemito strozzato. Giovanni. Il Dottor Rossi, come lo chiamavano tutti, anche se per Marzia e gli altri era semplicemente “Giovanni”, il collega sempre gentile, quello che non negava mai un aiuto, che aveva una parola buona per chiunque. Il professore amato dagli studenti del corso di laurea in infermieristica, la cui passione per la professione era palpabile in ogni lezione, in ogni gesto in reparto.
Era a terra, accanto ai lavandini, il viso pallido e gli occhi spenti. La siringa vuota, abbandonata a pochi centimetri dalla sua mano. Una fialetta di Propofol, un ipnotico potente, giaceva lì accanto, come un testimone silenzioso di un atto disperato. Marzia si lasciò cadere in ginocchio, la mano sulla bocca per soffocare un urlo. Le sue dita tremavano mentre componeva il 118, la voce un sussurro rotto dal pianto.
“Aiuto… presto… infermiere… qui… Dottor Rossi…”
L’arrivo tempestivo dell’ambulanza ruppe la quiete dell’ospedale. I lampeggianti blu e l’urlo delle sirene spezzarono la promessa dell’alba. Il medico e l’infermiere intervenuti, con volti gravi e gesti rapidi ma inutili, non poterono fare altro che constatare il decesso. Giovanni, l’uomo che aveva dedicato la sua vita a curare gli altri, che dispensava sorrisi e speranza, se n’era andato, nel modo più silenzioso e devastante possibile.
Le voci infrante.
Nessuno riusciva a capire. Come poteva un uomo così solare, così dedito, arrivare a tanto? La sua disponibilità, la sua calma, la sua apparente invulnerabilità. Tutto crollato in un istante, in quel bagno asettico, lontano dagli occhi di chi lo amava e lo stimava. Il silenzio dello spogliatoio ora non era solo assenza di rumore, ma un vuoto assordante, carico di domande senza risposta e di un dolore che si preannunciava insopportabile.
La notizia del suicidio di Giovanni si diffuse come un’onda d’urto silenziosa, ma devastante, tra i corridoi dell’ospedale. Nessuno voleva credere a quella realtà così brutale, così stridente con l’immagine che tutti avevano di lui. Giovanni Rossi era l’infermiere archetipo: paziente, empatico, professionalmente impeccabile. Il docente universitario amato dagli studenti del corso di laurea in infermieristica, la cui passione per la professione era palpabile in ogni lezione, in ogni gesto in reparto.
Marzia, ancora in stato di shock, venne condotta via dal bagno dagli operatori del 118 e dai Carabinieri, arrivati in fretta per i rilievi. Le sue parole, frammentate e piene di lacrime, non facevano che ripetersi: “Non è possibile… Lui no…”. Si sentiva in colpa, in un modo inspiegabile. Se solo fosse entrata prima, se avesse notato quel silenzio anomalo. Ma il senso di colpa era una cappa che stava avvolgendo tutti.
La mattina, di solito animata dal brusio delle consegne e dal profumo di caffè, si trasformò in un silenzio carico di sguardi smarriti e di lacrime trattenute a stento. Gli infermieri, i medici, gli OSS, il personale amministrativo: tutti si interrogavano. Come aveva potuto un uomo così solare nascondere un abisso di disperazione tanto profondo?
In reparto, la routine era un miraggio. I pazienti, ignari della tragedia che si era consumata a pochi metri da loro, chiedevano delle solite facce, dei soliti sorrisi. Ma i sorrisi erano scomparsi, sostituiti da volti segnati e occhi lucidi. La caposala, la severa e inossidabile Dottoressa Lombardi, solitamente un muro di compostezza, era seduta alla sua scrivania, le mani a coprirle il viso, le spalle scosse da singhiozzi silenziosi. Anche lei, che aveva visto di tutto in anni di corsia, era crollata di fronte a questa incomprensibile tragedia.
Le domande inquietanti.
L’arrivo delle autorità e l’inizio delle indagini aggiunsero un’ulteriore tensione. L’Azienda Sanitaria si affrettò a rilasciare un comunicato di circostanza, esprimendo cordoglio e vicinanza alla famiglia. Ma tra il personale, la rabbia iniziava a montare, mescolandosi al dolore. Non era un semplice suicidio, era la morte di un simbolo, la crepa in un sistema che, forse, stava schiacciando i suoi stessi pilastri.
Si cominciarono a sussurrare le prime domande scomode. Quali erano le pressioni invisibili che avevano logorato Giovanni? Era solo stanchezza, il carico di lavoro, la burocrazia asfissiante? O c’era qualcosa di più profondo, qualcosa che l’ospedale, con la sua facciata di efficienza, nascondeva? Il Propofol, un farmaco che Giovanni conosceva così bene, un alleato in sala operatoria per indurre un sonno profondo e privo di dolore, era diventato il suo tragico compagno di viaggio verso l’oblio. Un sonno dal quale non si sarebbe più svegliato, un arresto cardiaco improvviso nel cuore stesso del luogo che aveva amato.
Il peso invisibile della divisa.
La sua scomparsa gettava un’ombra lunga e fredda su tutti, ma soprattutto su Marzia. Lei lo aveva visto per ultima, lei aveva scoperto quel corpo senza vita. Nei giorni successivi, i flashback la tormentavano: il silenzio innaturale, la porta socchiusa, il corpo esanime di Giovanni. Cominciò a ripensare a ogni minimo dettaglio, a ogni conversazione avuta con lui. Era sempre stato un pilastro, il confidente, l’uomo a cui rivolgersi per un consiglio o una parola di incoraggiamento. Eppure, anche i pilastri possono crollare.
Il suicidio di Giovanni divenne il catalizzatore di un dolore collettivo e inespresso. Molti infermieri e medici si resero conto di quanto fossero vicini al limite, schiacciati da turni massacranti, carenza di personale, aggressioni verbali e fisiche, e una burocrazia che soffocava la vera vocazione alla cura. La morte di Giovanni non era solo una tragedia personale; era la manifestazione più estrema del peso invisibile che troppi professionisti sanitari portavano sulle spalle, nascosto sotto la divisa impeccabile e il sorriso di circostanza.
La comunità di Foggia, e non solo, piangeva il “Professor Rossi”. I suoi studenti organizzarono veglie e commemorazioni, ricordando la sua dedizione e il suo amore per la professione. Ma mentre le luci delle candele brillavano nel buio, una domanda risuonava più forte di tutte: quanti altri Giovanni stavano soffrendo in silenzio, intrappolati in un sistema che, pur salvando vite, stava consumando quelle di chi vi operava con tanta dedizione?
La storia di Giovanni, pur romanzata, si trasformava in un monito. La sua morte non sarebbe stata vana se avesse acceso una luce sulle condizioni di lavoro e sul benessere psicologico degli operatori sanitari. Marzia, pur ferita e sconvolta, sentiva nascere dentro di sé una nuova determinazione: la morte di Giovanni doveva servire a qualcosa. Doveva essere l’inizio di un cambiamento, una voce per tutti coloro che, come lui, davano la vita per gli altri, senza che nessuno si accorgesse quando la loro stessa vita cominciava a spegnersi. Il silenzio dello spogliatoio, ora, chiedeva solo di essere ascoltato.
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