Il cuore degli OSS.
Rosa ha mani piccole, ma forti. Mani che da vent’anni sollevano corpi, carezzano fronti sudate, asciugano lacrime silenziose. Indossa una divisa celeste, logorata dal tempo e dai turni infiniti, ma ogni mattina la sistema con cura, come fosse una corazza.
Lavora in ospedale, in un reparto dove l’odore di disinfettante si mescola a quello della paura. Ha imparato a riconoscere i sospiri dalla stanza accanto, a distinguere il silenzio della rassegnazione da quello del dolore.
Alle 6:30 è già in servizio. La sala è ancora vuota di voci, ma piena di bisogni. Entra nella stanza di Anna, un’anziana con lo sguardo stanco e le parole confuse dall’Alzheimer. Rosa si avvicina, la chiama dolcemente: «Buongiorno signora Anna, è ora di lavarci un po’ il viso… le va?»
Anna non risponde, ma si lascia guidare. Le mani di Rosa si muovono con delicatezza, come se stesse accarezzando un ricordo fragile. Le parla con tono basso, costante, come se ogni gesto fosse un patto di fiducia. Perché l’empatia, per un OSS, non è un’opzione. È l’unica lingua possibile.
Nel pomeriggio, in un’altra parte della città, Salvatore stringe tra le dita le chiavi dell’auto. OSS dell’assistenza domiciliare, conosce le strade più dei tassisti. Ogni giorno entra nelle case degli invisibili. Scale senza ascensore, anziani soli, stanze piene di medicine e fotografie sbiadite.
La prima visita è da Luigi, 58 anni, immobilizzato da una sclerosi che non lascia tregua. Ad accoglierlo c’è la moglie, con gli occhi gonfi di notti insonni. «Ha avuto le crisi di nuovo…», dice quasi scusandosi.
Salvatore ascolta, si toglie il giubbotto, si lava le mani. Non è lì solo per lavare, pulire, cambiare. È lì per esserci. Sostiene il corpo di Luigi, sì, ma soprattutto sostiene lei, la moglie, che ogni giorno si aggrappa a un filo di normalità. Mentre cambia un pannolone, butta una battuta leggera per sdrammatizzare. Mentre sistema il letto, chiede della figlia. Mentre registra i parametri, lascia una parola gentile.
Perché quello che fa un OSS non è solo assistenza. È cura dell’anima. È presenza. È ascolto. È dignità.
Rosa e Salvatore non si conoscono. Non lavorano nello stesso posto. Eppure portano lo stesso cuore cucito addosso alla divisa. Un cuore che batte senza pretese, senza clamore. Un cuore che non salva vite nel modo che fa notizia, ma le rende degne, rispettate, accolte.
Gli OSS non indossano camici bianchi, non fanno diagnosi, non prescrivono farmaci. Ma ogni giorno combattono battaglie silenziose in prima linea. Sostengono l’intero sistema sanitario con gesti che nessun algoritmo potrà mai riprodurre.
Il loro è un mestiere fatto di piccoli miracoli quotidiani. Rimettere in piedi una persona caduta nel bagno. Far sorridere chi non ride più da settimane. Asciugare lacrime senza chiedere perché. E poi ripartire, casa dopo casa, stanza dopo stanza.
Sono i diamanti nascosti della sanità. Le fondamenta invisibili. Le voci che rassicurano. Le mani che sollevano. I piedi che percorrono chilometri per arrivare dove nessuno guarda.
Rosa, prima di smontare dal turno, saluta Anna con un bacio sulla fronte. «A domani, signora bella.» Anna non parla, ma stringe la mano. Forte. È un grazie muto, ma eterno.
Salvatore, al termine del giro, si siede un attimo in macchina. Fuori, il cielo è buio. Dentro, il cuore è pieno. Sa che domani si ricomincia. Che non ci sarà un titolo di giornale a raccontarlo. Ma a lui basta un sorriso, una carezza, un “grazie” sussurrato. Perché quello è il vero riconoscimento.
Nel cuore pulsante del nostro sistema sanitario, spesso nascosto dai riflettori, batte forte il cuore degli OSS. Un cuore che non si studia nei manuali, ma si impara sul campo, giorno dopo giorno, con umiltà, empatia e dedizione.
È il cuore di chi, anche quando nessuno vede, continua a esserci. E ad amare, profondamente, il proprio lavoro.
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